LA RELAZIONE DEL PRESIDENTE USCENTE, MAURIZIO MICHELI
— 19 Dicembre 2018Pubblichiamo di seguito alcuni stralci della Relazione svolta all’Assemblea dal Presidente uscente, Maurizio MICHELI:
« Mi sia consentito, per comprendere quali siano le difficoltà attraverso le quali la categoria ha dovuto passare, di partire un po’ più da lontano dagli ultimi cinque anni con i quali ha coinciso il mio mandato. Parto dal punto più alto dal quale, con una storia difficile, ma anche gratificata di fatti positivi, la categoria era situata. Per cominciare con una nota di natura economica, dal 2000 – erano gli anni in cui erano appena state definite ed aggiustate le norme “speciali” di questo settore sul rapporto gestori/compagnie – ad oggi, il margine medio del gestore è rimasto fermo, anzi è lievemente diminuito in termini “nominali” (specialmente nel periodo caratterizzato dalle spinte dell’iperself), perdendo cioè, per effetto delle dinamiche dell’inflazione, il 30 % del suo valore de a fronte di costi che invece l’inflazione l’hanno incorporata ed al moltiplicarsi di adempimenti necessari o imposti all’attività (che rappresentano costi aggiuntivi ulteriori), ad una lievitazione dei prezzi dei prodotti, con tutti i riflessi sugli oneri finanziari connessi, nell’ordine del 50 %. Già tutto questo è fin troppo sufficiente per mettere in crisi gli equilibri gestionali di microimprese che non sono minimamente capitalizzate e dipendono sostanzialmente dall’accesso e dai costi del credito di esercizio.
È stata, inoltre, drasticamente stravolta la rete e capovolto il mercato. Se, per effetto della crisi economica intervenuta dal 2008 (dalla quale si stenta ancora ad uscire in modo chiaro, prevalendo purtroppo ulteriori segnali di rallentamento dopo performance positive piuttosto modeste); i consumi sono complessivamente diminuiti nell’ordine del 15 % (ma in questo pesa anche un progressivo cambiamento del parco circolante, con una forte crescita del diesel, e con una forte innovazione nell’ergonomia dei motori), ma la rete ha perso consumi in misura più che doppia (33 %). La rete riconducibile alle petrolifere, o in proprietà o in convenzione e comunque quella in cui è ancora presente la figura del gestore, è diminuita di oltre il 27 %, gli indipendenti sono schizzati dal 4 al 27 %.
Quanto al mercato, agli effetti della potenzialità di competizione, le vendite nel circuito rete erano il 76 %, ora sono pari al 57 %, quelle in extrarete sono passate dal 24 al 43 % ed il differenziale del prezzo di cessione tra rete ed extrarete dai meno di 5 cent/litro di allora è, sia pure solo mediamente, e senza vedere situazione per situazione nella giungla dei prezzi, più che raddoppiato al self e più che quadruplicato al servito.
Tutto ciò in un contesto in cui sono state enfatizzate in tutti i modi le spinte alla deregulation e liberalizzazione del settore in assenza di ogni razionalizzazione della rete: in pratica solo un travaso di ingenti quote di mercato ed assetti di rete dal “sistema” petrolifero integrato a quello così detto indipendente.
Ad un tanto si aggiungano i fatti degli ultimi anni: l’abbandono del mercato da parte di alcuni marchi di dimensione nazionale, sia sotto forma di cessione integrale sia nella forma del “modello grossista” con il moltiplicarsi dei retisti di dimensioni importanti, i processi di concentrazione di altre realtà tra esse non omogenee, l’esplosione del fenomeno dell’illegalità e dell’inquinamento del mercato con ingentissime transazioni di prodotti da parte della criminalità, organizzata e non, locale ed internazionale.
Se questo è il quadro generale, vediamo come esso si sia sviluppato in maniera e misura diametralmente opposta da quel complesso di presupposti che stava alla base del modo di pensare delle organizzazioni di categoria di venti o anche dieci anni fa: un mercato “stabile”, una rete in modernizzazione, un regime di relazioni sindacali ed economiche gestori/aziende definito e fissato da norme specifiche.
Quanto agli ultimi anni – più o meno da quando mi è stato conferito l’onore/onore di essere il Vostro presidente -, la situazione che abbiamo trovato era, grosso modo, così rappresentabile: ci si trovava nel pieno della selfizzazione selvaggia, cioè della logica, grosso modo, dell’iperself, con una pesante compartecipazione del gestore agli sconti di prezzo e con un pesante ricatto alla categoria di espulsione dalla rete sotto l’insegna della corsa all’impianto ghost; dilagavano i tentativi delle stesse aziende petrolifere di imporre figure e contratti anomali e del tutto elusivi delle norme di settore: i contratti di appalto, le guardianìe e via elencando; i forti cambiamenti del mercato dimostravano l’evidente impossibilità per il gestore di partecipare in prima persona e con il proprio margine alla “guerra dei prezzi” e quindi con una progressiva vulnerabilità degli strumenti contrattuali tradizionali; vi era in atto un forte tentativo delle aziende di delegittimare le rappresentanze dei gestori, ricorrendo all’imposizione di trattative coi singoli gestori: quello che, sempre grosso modo, chiamiamo “one to one”; vi era l’indisponibilità delle aziende a trattare nuovi accordi, nell’evidente intento di far precipitare la situazione ad un punto di non ritorno.
Ad una situazione di così inaudita gravità, va pur detto, si è dovuto far fronte con scelte forse discutibili, forse anche scontate, forse pur sempre inefficaci, ma è fuori di dubbio che si è reagito, sia pure con capacità di trattativa intaccate da una lunga usura della categoria e da un grave deterioramento delle condizioni del mercato e del quadro delle relazioni sindacali.
Ci si ricorderà che il primo accordo, intervenuto dopo anni di chiusura delle aziende, è stato con una Esso che allora aveva solo cominciato a sviluppare in misura limitata il “modello grossista”, ma soprattutto quello con Eni, che ha segnato, dopo le guerre di iperself un’inversione di tendenza – complice la tendenza vincente all’interno della azienda per una politica commerciale più articolata e maggiormente sensibile alle potenzialità del servito -, in cui, dopo anni di pressioni in direzione opposta, si è ridato, almeno nominalmente, un maggior senso alla funzione del gestore nell’ambito del sistema distributivo, sia pure investendolo della difficile missione di incrementare la modalità di servizio a più alto prezzo. Peraltro, conti alla mano, va pur detto, ai tempi di iperself la perdita di valore del margine medio del gestore era più severa di non pochi punti percentuali rispetto ad ora.
Ci si ricorderà che allora – in riferimento agli strumenti negoziali gestori/aziende ed a non grande distanza dalla norma di liberalizzazione delle nuove tipologie – si avviò il processo di definizione del contratto di commissione, passaggio formalizzato allora con Assopetroli e Grandi Reti, e solo recentemente, dopo una lunghissima gestazione, con Unione Petrolifera (e presentato al Ministero il 12 dicembre).
La complessa vicenda dello “spacchettamento” Esso, in un contesto di ripresa degli accordi con le aziende, ha certamente riprodotto una situazione di rottura simile a quella antecedente, concretatasi nella indisponibilità di parte dei retisti acquirenti a riconoscere la validità e la continuità dell’accordo contratto nel 2014 dalla Esso e nella ripresa delle negoziazioni anomale e condotte “one to one”. L’azione legale condotta delle organizzazioni di categoria, pur con un percorso che può essere sembrato contorto a causa della impossibilità di stare in giudizio delle rappresentanze sindacali in forma collettiva ed interposta, ha avuto il merito di far ribadire dai giudici, da un lato, la nullità di pattuizioni individuali aziende/gestori e la obbligatorietà di contrarre accordi collettivi, dall’altro, la legittimità dell’azione legale del singolo gestore in caso di mancanza di tali minimi presupposti.
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Ho inteso richiamare doverosamente questi fatti perché, sia pure con tutti i limiti, essi sono stati una risposta più o meno efficace, ma pur sempre una difesa, a quei fattori di gravissima criticità – che ho menzionato poco fa (selfizzazione come unica politica commerciale, assenza di accordi, contratti anomali ed individuali, efficacia ridotta del contratto di fornitura, ecc.) – che ci siamo trovati di fronte negli scorsi anni e via via fino al presente.
Tralascio di dire che tutto questo, poco o tanto che si reputi sia stato fatto, non si fa certamente in un attimo, che presuppone complesse mediazioni all’interno delle rappresentanze di categoria ed ancor più con la controparti, che partono da volontà diverse se non opposte e, nel caso di fattispecie, percorsi non semplici per predisporre azioni legali e, non ultimi, per i tempi del contenzioso legale stesso, ed un tanto, aggiungo, tenendo conto dello scenario generale e dei tempi difficilissimi in cui ci troviamo.
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Se da un lato è più facile giudicare le vicende passate a distanza di tempo, e magari anche ritenere certe scelte fatte come inadeguate (o persino sbagliate) alla luce di quanto successo dopo, è pur necessario, anche dopo avere fatto il possibile, diffidare di “certezze” del momento – lo abbiamo già detto più sopra – come se gli scenari fossero destinati a rimanere statici, dal momento ogni presunto “punto di arrivo” è in realtà solo un “punto di partenza”.
Parliamo di cose concrete, prima di sviluppare una riflessione finale di aspetto più generale.
Partiamo dal contratto di commissione. Siamo ad un “punto di partenza”, per il semplice fatto che abbiamo tipizzato il primo livello (e, devo far notare, a distanza di sei anni da quel termine fissato dalla legge 27/2012 nel novembre 2012 per tipizzare le nuove tipologie di contratto), ma sul secondo livello – senza il quale il contratto non è applicabile –, ossia il livello dell’azienda che definisce l’aspetto economico e non solo, è tutto da trattare e scrivere e nulla vieta di pensare che le aziende possano pensare di partire (non manca l’esempio) ad applicare la tipologia in quanto tipizzata senza che siano intercorsi e conclusi i contenuti di dettaglio, magari formalizzandoli “one to one”; così come tutto è da definire sullo zoccolo duro della parte economica, ossia quello che riguarda il “minimo”. Una difficile partita tutta ancora da giocare davvero. E se, da un lato, il contratto di commissione solleva il gestore dal carico finanziario della merce, e dall’altro attribuisce in toto la politica commerciale, fino all’ultimo decimale del prezzo, al committente, la potenzialità
competitiva rimane pur sempre un’incognita totale, perché, in assenza di meccanismi di tutela in sede di accordo di secondo livello, l’eventuale margine “minimo” rischia di essere tale nel senso proprio della parola e non nel senso del “minimo” in quanto indispensabile a garantire la giustificazione della gestione di impresa. Ed un’altra questione, che rimane in sordina su questa tipologia per la rete ordinaria, è quella della eventuale reversibilità contrattuale (vuoi rispetto alla nota tipologia tradizionale comodato-esclusiva, vuoi rispetto ad eventuali nuove tipologie contrattuali).
Nell’ambito, invece, degli accordi che sono stati conclusi nella cornice normativa del vecchio comodato-fornitura, le note questioni del crescente divario tra prezzo del self e del servito (anche in questo caso si ricorda che da quando fu introdotto ad oggi, il delta è passato da solo 2 cent/litro, nella rete di marchio petrolifero, a 15 cent/litro, sempre sul prezzo medio nazionale ed in media di tutti i marchi petroliferi, con un salto del 122 % solo da inizio 2015 ad oggi) hanno fatto emergere l’orientamento, tra le organizzazioni condiviso, di ricondurre i due diversi margini ad un “margine unico” (concetto che fa il paio con il margine “minimo” nella tipologia del contratto di commissione). Anche qui una partita integralmente da esplorare.
Quanto alle situazioni degli accordi in essere o degli accordi da rinnovare e fin da troppo tempo scaduti basti pensare alla situazione che si è determinata nel gruppo Api a seguito dell’acquisizione di TotalErg. Salutato un anno fa come un avvenimento significativo della volontà del sistema “petrolio Italia” di reagire alla fuga di compagnie importanti, il connubio tra “pere e castagne” (la diversità delle due reti, degli erogati, del peso dei convenzionati e dei modelli aziendali) ha riprodotto, moltiplicate per due, le difficoltà che già esistevano nelle due singole realtà ed avete potuto leggere la comunicazione unitaria inviata al gruppo in data 20 novembre in cui si annuncia lo stato di agitazione dei gestori dell’azienda.
E, nell’ambito degli accordi sottoscritti nel mondo ex Esso (EG in data 17 luglio), non mancano certo ragioni di doglianza, con l’azienda che scrive ai gestori minacciando lo scioglimento del singolo contratto e la trattenuta integrale dei margini per i quantitativi rilevati come venduti in supposto overprice, vendite definite testualmente come “illegittime”.
Il che dimostra, per l’ennesima volta, che gli accordi – almeno per come sono definiti dalle parti e anche quando sono salutati come positivi per il loro valore, diciamo così, “politico” – presentano ampi margini interpretativi da parte delle aziende per essere usati contro i gestori in misura tale da inficiare il senso stesso di tali accordi sia per la parte normativa che per quella economica.
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E se parliamo d’altro, potrei citare quelle tematiche su cui abbiamo pensato che il settore potesse trovare momenti ed obiettivi comuni tra aziende e gestori: un esempio su tutti, quello della razionalizzazione della rete, su cui dopo un travaglio di anni infine si sono fatte delle norme che, alla prova dei fatti, si dimostrano scarsamente significative o del tutto tardive. Su una rete che è la più dispersiva d’Europa, le prime risultanze dell’anagrafe istituita presso il Ministero rilevano che gli impianti che si dovranno chiudere per manifesta impossibilità di essere resi compatibili sono solo una manciata.
Ma potrei parlare del fronte anti-illegalità, su cui non poche confusioni si sono innescate per le diverse sensibilità sugli scopi di questa campagna: per noi il concetto di ”illegalità” era soprattutto il mancato rispetto delle regole, l’elusione delle norme di settore, che si trovava all’interno del settore stesso, una cosa da distinguersi dalla illegalità fiscale e dalle infiltrazioni criminali che sono cosa che impegna le istituzioni e lo stato. Certo l’illegalità danneggia in termini concorrenziali il gestore, ma lo danneggiano anche, e di più, le elusioni degli accordi, l’abuso di dipendenza economica, le pressioni individuali sui contratti anomali, e via discorrendo.
Ricorre spesso il concetto che “ricompattando il settore”, ossia mettendo insieme aziende e gestori su singoli obiettivi specifici (ristrutturazione piuttosto che illegalità od altro), ciò consenta di poter creare delle occasioni anche per avere interlocutori sulle questioni che riguardano maggiormente i gestori, ossia condizioni economiche e contrattuali.
Può essere un passaggio utile e persino necessario, e sarebbe sbagliato evitarlo a priori, ma spesso non è questo il risultato che si arriva a conseguire. Il mondo stesso delle aziende petrolifere e la sua capacità di fare sistema è cambiato, prevalgono logiche di tipo finanziario e commerciale, banche e fondi hanno preso posto nello scenario, la stessa funzione di Unione Petrolifera è fortemente attenuata se un gruppo come Api ha annunciato la sua uscita da UP dal 2019.
Ho voluto sottolineare questi aspetti, anche con le loro incongruità e limiti, per una ragione ben precisa e che si può sintetizzare in questi termini: gli accordi e le intese, che abbiano per oggetto condizioni economiche e normative precise o regole di comportamento o condivisione di princìpi sono importanti, ma lo sono altrettanto gli aspetti di dettaglio, le clausole di reciprocità, i contenuti economici, questi ultimi in particolare quando le logiche aziendali diventano, nella trasformazione del settore e del mercato, sempre più solo rigorosamente commerciali e sempre meno legate al “sistema integrato petrolio” quale eravamo abituati a pensare fino ad alcuni anni fa.
Se la propensione delle aziende è oggi (con le dovute eccezioni) più sensibile alla definizione di accordi ed al rispetto almeno formale delle norme, si tratta certo di un fatto positivo rispetto al quadro di assoluta chiusura di quattro o cinque anni fa e ciò ha ridato un ruolo ed una dignità alle rappresentanze della categoria, con le quali prima si cercava addirittura di non trattare, ma ruolo e dignità vanno ridati in prima persona al gestore.
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Questo è un settore “maturo”, ossia ha già dato quel che poteva dare e quel che non ha dato difficilmente riuscirà a darlo d’ora in avanti. E per di più è un settore di cui si parla come di qualcosa che non è più “politicamente corretto”: il petrolio non va più certo di moda e se parla della fine come di un appuntamento necessario ormai dietro l’angolo, propiziato da continui annunci e concrete misure.
In realtà possiamo presumere che sulla maturità di questo settore le cose non stiano esattamente come si dipingono: la transazione sarà graduale, servono risorse di grande rilevanza in una situazione di perdurante difficoltà dell’economia di crescere, servono soluzioni per garantire la redistribuzione fiscale delle accise, ed altro molto ancora sul piano sociale ed occupazionale…
Perciò, pur forse neglette dalla politica, le cose in questo settore continueranno ad andare avanti, sicuramente dieci anni, forse quindici o più. Il periodo di transizione sarà ragionevolmente lungo, sufficientemente lungo per una sopravvivenza della categoria e, di riflesso, per una necessità del ruolo delle sue rappresentanze.
Questo settore, lo abbiamo detto, si è totalmente trasformato e non nel senso che ci eravamo immaginati ai tempi in cui avevamo fissato le nostre “certezze” ed i nostri schemi di pensiero. Serve la capacità, nonostante tutto, di rinnovare i nostri schemi, di pensare e perfino di parlare in modo “nuovo”.
Da un lato, accanto a tutte le liberalizzazioni inutili che ci sono state e che hanno travisato il settore, ne manca una fondamentale: il controllo del prezzo, che oggi è gestito in tutte le sue fase “prima e fuori” dal gestore (dal un prezzo di cessione differenziato tra circuito rete ed extrarete, fino al prezzo consigliato ed a quello massimo).
Il vero nòcciolo della questione l’arricchimento delle ipotesi e delle tipologie contrattuali, e rimane la priorità di come, dentro gli schemi attuali, trovino adeguata trattazione giuridica, reciprocità ed efficacia reale, tutti quegli aspetti di dettaglio di natura economica (che non sono solo il “margine”, ma i cali, i flussi economici reciproci, ecc.) e contrattuale che sostanziano gli accordi e danno o tolgono loro un valore reale.
Non bastano più, purtroppo, i princìpi formali a dare sostanza e valore agli accordi: gli accordi si contrattano e si contendono con adeguate competenze per ogni singolo aspetto, senza paura che ciò “intacchi” la funzione del sindacato, che viene bensì intaccata in credibilità e surrogata dal contenzioso legale solo se gli accordi sono generici e/o sopravvalutati sul piano, diciamo così, “politico”.
Ciò che spesso non abbiamo affatto fatto è favorire la mentalità dell’impresa (ed il gestore è, sotto tutti gli aspetti e gli obblighi, un’impresa) e per questo possiamo aver ritenuto di far bene, e di avere un compito più facile e di costruire così una “unità” fittizia della categoria basata sulla nostra garanzia sui margini, costringendo tutti entro uno stesso schema. Oggi possiamo dire che questa mancanza di flessibilità alla lunga si è rivelata un handicap rispetto allo stravolgimento del nostro mondo.
Ma è anche fin troppo facile giudicare le cose alla fine della partita: per certo si sono affrontate le difficoltà del momento con assoluta buona fede e con le forze a disposizione, pensando di fare le scelte che sembravano migliori in quella precisa circostanza.
Ora possiamo e soprattutto dobbiamo provarci a ragionare ed operare contemporaneamente con un occhio alla continuità ed uno al cambiamento, senza strappi, ma neppure arroccati dentro vecchi schemi non sufficienti a concepire un cambiamento possibile: difficile, ma non impossibile.»