APPUNTO, DOVE VA LA RETE CARBURANTI [E NON SOLO QUELLA]?

Si era scritto qualche settimana fa [su Figisc Anisa News n. 27 del 21.11.2016, «Di fronte al bivio – ragionamenti per prospettive possibili…», cui si rimanda anche per le conclusioni ivi contenute, che non si ripeteranno anche in questo numero perchè sono del tutto uguali] che «Il rischio…è che questa parte del tavolo, ossia i gestori, che queste [N.d.R.: la lotta all’illegalità e la ristrutturazione della rete] diventino “le uniche” chiavi interpretative e che subentri ora, oltre che una sommaria condanna del passato, l’aspettativa che, una volta individuata la causa, tutto ritorni poi alla normalità [=come prima ai vecchi tempi] grazie a pochi ed efficaci correttivi».

La stessa considerazione si può estendere, a distanza di poco tempo, a quanto è emerso dalle analisi del settore contenute negli interventi – ma questa volta delle «controparti» dei gestori, ossia industria petrolifera e retisti – del workshop «Dove va la rete carburanti?», di cui abbiamo dato notizia in questo e nel precedente numero [n. 29 del 03.12.2016] di Figisc Anisa News.

Cominciamo dalla razionalizzazione della rete [di cui UNIONE PETROLIFERA dice che il relativo provvedimento – il DDL Concorrenza – «è da 600 giorni in Parlamento e ancora attende di essere approvato», e su cui il Documento Unitario delle organizzazioni del settore è stato sottoscritto in data 14.04.2015].

Dice la relazione del Presidente SPINACI che «Abbiamo un numero di punti vendita che è il doppio di quelli di Francia, Spagna o Regno Unito con erogati che sono meno della metà. Uno studio di un paio di anni fa ha messo in evidenza che…la dimensione ritenuta ottimale per la nostra rete, capace di garantire la necessaria capillarità ed una efficienza europea, dovrebbe aggirarsi intorno ai 15.000 PV mentre oggi ne abbiamo intorno ai 21.000».

Lo studio cui si riferisce UP è quello di NOMISMA ENERGIA del 02.04.2014, di cui si è data notizia a suo tempo su Figisc Anisa News n. 30 del 20.06.2014, e che pone l’asticella effettivamente sul numero di 15.000 impianti.

Volendo rinfrescarne la memoria, si può consultare la sintesi di quello studio e scaricarla cliccando col mouse sul seguente titolo:

Sintesi Studio Nomisma rete distributiva

15.000 – o un numero simile – è una specie di «numero magico» che però non «esce» mai davvero sulla «ruota» vera della rete.

Chi scrive il presente articolo ne parlò la prima volta più di diciassette anni or sono in un breve studio che STAFFETTA in data 13.03.1999 commentò con questo titolo «In base alla media europea dovrebbero chiudere 12.615 p.v. carburanti – Gli sconcertanti risultati di un’indagine» ed il numero, senza essere precisi alla virgola, era di una rete di 15.587. Anche in questo caso, basta cliccare col mouse sul seguente titolo:

STAFFETTA 13.03.1999

Qualche anno dopo, sempre chi scrive [è un maledetto vezzo dei vecchi indulgere alla solita frase: «lo dicevo…»] sviluppò un ulteriore studio – «Statistiche sugli erogati nazionale e regionali degli impianti/Simulazione sul modello di rete europea avanzata 26 agosto 2003» – in cui si ragionava di «soglia di presenza di impianti per unità territoriale in funzione delle diverse concentrazioni abitative del singolo territorio regionale» e quel numero di impianti diventava leggermente minore: 14.534 per la precisione. Lo studio è consultabile anche in questo caso cliccando col mouse sul seguente titolo:

Speciale_erogati&rete

Diciassette, anche dodici, anni or sono, le vendite sulla rete erano superiori del 50 % a quelle attuali [34,5 miliardi di litri nel 1999, 35,5 miliardi nel 2003…..23,5 miliardi nel 2015]. Questo è il senso «quantitativo» del tempo – intenzionalmente o meno, e «liberalizzazioni» aiutando, ormai poco importa -, perduto della razionalizzazione. Al punto che, sempre dando credito all’intervento di UP al workshop che «considerando il totale dei 21.000 punti vendita ci sono almeno 5.000 impianti che hanno erogati sotto i 350 mc/anno» – ossia sviluppano circa 1,750 miliardi di litri di erogato – il beneficio, se questi venissero chiusi, alla restante rete di 16.000 impianti, sarebbe misurabile in un «travaso» con la famosa «media del pollo» di poco più di 100 klt/impianto.

E sul piano «qualitativo», poi, si è visto in questi anni di tutto e di più, al punto che è persino inutile rievocarne le variabili [dalle politiche di semi o totale automazione, alle politiche di pricing, agli «scontoni d’estate» e così via narrando].

Continuiamo con la seconda questione, che riguarda il mondo degli indipendenti ed i nessi con le aree di illegalità, in cui si scorge qualche tesi che potremmo definire un po’ «semplificatoria» della realtà.

Nella relazione UP si fa una dettagliata analisi del mondo indipendente: intanto, la GDO con 135 impianti ed un erogato medio/pv di 8.000 klt sviluppa volumi per quasi 1,1 miliardi di litri, poi ci sono le pompe bianche di alta gamma che sviluppano erogati medi «europei» sui 3.500 klt [un altro pacchetto di volumi da 1,75 miliardi di litri e 500 impianti], poi ancora quelle di media gamma [un migliaio con erogati da 1.500 klt e volumi complessivi per altri 1,5 miliardi di litri]. E infine vengono quasi 2.600 impianti, definiti come il «proliferare di una terza categoria di punti vendita no-logo: quelli a basso erogato (che magari in precedenza erano convenzionati con le compagnie petrolifere) che in un estremo tentativo di difesa, o semplicemente per evitare i costi di rimozione e ripristino, restano aperti senza un marchio», cui si attribuisce un erogato medio da 500 klt.

Concesso che della GDO non si potesse proprio parlar male – specie in considerazione di «chi» anche organizzava il workshop, nonchè degli accordi di fornitura con la grande distribuzione stretti dalle maggiori compagnie petrolifere -, e che possa risultare anche poco sportivo parlar male di quegli indipendenti che conseguono risultati di vendita molto migliori, o anche di poco migliori della rete petrolifera, è risultato abbastanza agevole accendere sulla parte finale, ma anche più numerosa, dell’intero universo indipendente un riflettore: «dovrebbe essere il mercato a portare alla chiusura degli impianti meno efficienti, ma ciò non avviene anche per la diffusa illegalità che caratterizza il comparto» [dice UP] oppure «…certo, un ruolo ce l’ha anche il fenomeno dell’illegalità che tiene sul mercato alcuni piccoli impianti. Un punto vendita da 300mila litri l’anno, nelle condizioni attuali di margini e di concorrenza può esistere solo grazie all’illegalità» [dice ASSOPETROLI]. Anche perché «si stima che un 10% della domanda sia coperta da attività illegali» e circa 2.600 impianti a basso erogato sono bensì pur sempre più del 10 % della rete, ma in fin dei conti non saranno proprio tutti illegali e non si può sempre «fare d’ogni erba un fascio».

In sostanza, più crudamente, l’illegalità è assai probabile che stia esattamente dove «magari “in precedenza” erano convenzionati con le compagnie petrolifere», ma ognuno giudichi questo nesso, così come esattamente indicato, e non da noi!, come meglio crede.

Adesso mettiamo assieme i due aspetti potenzialmente «risolutivi»: chiudere cinquemila impianti a basso erogato, di cui forse più di metà potrebbero essere in odore di poca santità, in una mirabile sintesi di razionalizzazione e contrasto all’illegalità; tutto bene per tutti [qualcosa, cioè, che va bene all’industria petrolifera, agli operatori collegati ad essa, agli indipendenti corretti e persino ai gestori delle compagnie («siamo tutti coinvolti e quindi dobbiamo fare squadra»)], dunque – sia pure con la tara che non basta individuare le soluzioni «risolutive», ma anche portarle ad attuazione -: non solo un recupero più o meno importante di efficienza degli impianti, ma anche una normalizzazione più o meno significativa nella competizione dei prezzi data dal taglio delle frange illegali. Bingo?!

E veniamo al terzo argomento, la competizione, appunto, dei prezzi.

Nel mercato «pulito», le distanze del prezzo finale tra rete dei marchi petroliferi e rete no-logo [stiamo parlando di medie del prezzo] sono ormai nell’ordine di 3,0 cent/litro per la modalità self e di 12,0 cent/litro per la modalità servito [se si fa la media pesata tra i quantitativi venduti nelle due diverse modalità (grosso modo 70 % e 30 % rispettivamente) siamo su un delta di 5,5 cent/litro].

Questo si vede in fondo al processo distributivo. Quel che sta dietro, grosso modo – e sempre nel mercato «pulito» -, è che il prodotto viene ceduto alla rete di marchio [più precisamente al gestore] con un prezzo pari a circa 15,8 cent superiore alla somma di prezzo Platt’s più accisa più IVA su queste due componenti – attenzione: stiamo sempre parlando di una media pesata sia tra prodotti (35 % benzina, 65 % gasolio) che tra modalità di servizio (come detto poco sopra, 70 % self, 30 % servito) -, mentre viene normalmente ceduto all’operatore indipendente con un prezzo pari a circa 3,7 cent superiore alla stessa somma di prezzo Platt’s più accisa più IVA su queste due componenti.

Sulla rete di marchio – dove ancora è rimasto un gestore, e non già non nei ghost o nelle gestioni a vario titolo «innovative» rispetto al benzinaio, dove, per dirne una, i prezzi (persino inferiori al Platt’s) sono così bassi che bisogna metterci una parte delle marginalità che si realizzano con i prezzi del servito – il gestore ci aggiunge un margine concordato che vale, sempre in media pesata, circa 4,4 cent/litro [sempre di importi ivati parliamo], l’operatore così detto indipendente ci aggiunge circa 11,1 cent/litro.

Questi numeri esprimono tutti i costi e tutti i margini dei tre soggetti sopra indicati, petrolifere, indipendenti, gestori delle petrolifere.

Con alcune precisazioni. Che, innanzitutto, alla filiera petrolifera servono, o si devono far servire, 20,2 cent/litro [compreso, quindi, il segmento del gestore] per fare quello che l’operatore indipendente fa con 11,1 cent/litro una volta comprato il prodotto alle condizioni che il mercato «pulito» gli riserva [3-4 cent/litro di premio da pagare al fornitore], ossia serve il doppio per unità di prodotto rispetto a quello che serve al secondo, o, se si preferisce, tale filiera distributiva esprime solo il 50 % di efficienza rispetto al competitore indipendente. E ancorché si sezioni il tutto – togliendovi, ad esempio, una parte quale il segmento del gestore -, tale differenza solo si dimezza: costi e margini sono sempre superiori di oltre il 40 %

Che, secondariamente, a differenza della flessibilità che l’operatore indipendente può esercitare nel determinare costi e margini – e quindi nella fissazione del prezzo finale -, nella distribuzione di ambiente petrolifero tutto è «ingessato» prima e dopo la cessione del prodotto sulla base di un processo accentrato da capo a piedi, non essendovi dispiegabile alcuna minima flessibilità da esercitarsi in questo o quel punto del segmento distributivo. Un modello rigido che, così rimanendo, non sarà mai sufficientemente competitivo fino in fondo con quello più flessibile che compete – o che si è fatto competere – sulla rete: un problema non contingente, non recato cioè dalla pletoricità della rete piuttosto che dal diffondersi dell’illegalità, ma del tutto «strutturale».

Allora il tema del «Dove va la rete carburanti?» non è solo un problema di razionalizzare la rete, di rintuzzare le spinte illegali o, tra le righe, marginalmente anche di punire chi si è allontanato dal recinto petrolifero tradizionale, ma è anche un problema di modelli distributivi ed organizzativi, di cui – ma solo per esempio – il concetto che «siamo forti nel brand e nel marketing… nella gestione di una stazione di servizio…lasciamo fare a chi sa fare meglio» non pare recare molto di innovativo al di là di un eterogeneo innesto, a quanto si desume dagli «annunci», tra flessibilità già esistenti fuori dalla filiera e rigidità di filiera petrolifera declinata su scala più ridotta.

È chiaro che siamo ancora lontanissimi da una rete e da un mercato «normali», in cui la fase distributiva finale possa essere «normalmente» dispiegata attraverso modelli organizzativi e soggetti pluralistici e diffusi, riaffidata a logiche oggettive e destituita, magari, di tutte le inutili enfasi in cui il settore è vissuto in questo paese tra monopoli, duopoli, riserve protette reali o tutele (in)formali, slanci di liberalizzazione tra astrattezza e piccolo cabotaggio, tanta cattiva politica – e non solo da una parte – e poco mercato buono, e quant’altro.

Peraltro, la questione non è di una teoria astratta dei «modelli distributivi», bensì del fatto che la rigidità della filiera distributiva complessiva petrolifera ha pesato [per dirla una volta tanto in maniera elegante e senza il solito piagnisteo] esclusivamente sul cuscinetto finale – i gestori – che ha dovuto assorbire tutto l’impatto della pressione competitiva, esprimibile in perdita degli erogati, delle marginalità residue e della sostenibilità economica di impresa. E perciò da tutto questo bingo, sia pure ancora del tutto virtuale [=da vincere], che molti vogliono vedere nelle chiavi interpretative per la soluzione della crisi del comparto, declinabili per slogan tipo «razionalizzare lottando contro l’illegalità» o, se piace di più, «lottare contro l’illegalità razionalizzando», come aquile a due teste, i gestori, si diceva, avranno ben poco da spartire ed ancor più scarse ragioni per rimanere in attesa che tutto ciò abbia il tempo di produrre i suoi effetti prima di «disturbare i manovratori» del banco della tombola per discutere di qualsiasi altra cosa che li riguardi direttamente davvero. [G.M.]

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