CANTARELLI: AUTOSTRADA, ULTIMA CHIAMATA

CANTARELLI: AUTOSTRADA, ULTIMA CHIAMATA

In autostrada – in raffronto ai consumi, e tenendo in debito conto tutte le dinamiche del traffico, degli anni di crisi, e via dicendo – mancano all’appello vendite di carburanti stimabili in circa 1,5 miliardi di litri: come a dire che si vende in questa rete solo la metà di quello che vi si potrebbe vendere.

Negli ultimi anni ‘90, ogni 100 km di percorrenza dei veicoli in autostrada, si vendevano quasi sette litri di carburante, l’anno scorso non si è arrivati a due: un’emorragia del 72 %, nonostante da quegli anni sulle autostrade, sempre l’anno scorso, si siano percorsi quasi il 30 % di chilometri in più. Ed è alla fine, solo questo ultimo dato in aumento nel corso degli anni, nonostante la falcidia del traffico negli anni peggiori della crisi (il 2009, il 2012 ed il 2013), che ha in parte attutito l’emorragia delle vendite che pesa «solo» (si fa per dire) il 64 % e non il 72 %.

E se l’erogato medio/AdS sempre alla fine degli anni ’90 era di 9,3 milioni di litri, nel 2016 vale meno di 3,5 milioni di litri, con una rete che mantiene circa lo stesso numero di punti vendita: come a dire che, «tutta» la rete nazionale «mediamente» sta ormai sotto la soglia di giustificazione dei costi gestionali.

E se la rete autostradale perde il 64 % delle vendite mentre, nello stesso periodo di tempo, la rete ordinaria perde meno della metà, ossia il 29 % delle vendite, e, si badi, i consumi complessivi (rete ed extrarete) perdono solo il 15 %, è solo colpa della fatalità, del «destino cinico e baro»?

Le ragioni? I costi di accesso (aumentati del doppio/triplo dell’inflazione), i prezzi dei beni e dei servizi offerti dalla rete, gonfiati dalle royalty e da politiche commerciali ormai irrealistiche (differenze crescenti rispetto alla rete ordinaria, divaricazione dello spread tra modalità di servizio, per non parlare di altre vicende, ormai di qualche anno fa), sono tutti fattori che hanno contribuito non solo a demolire ogni attrattività di questa rete – che pure sarebbe in certo modo un canale obbligato per un certo tipo di traffico -, ma hanno determinato una vera e propria fuga del consumatore e delle imprese che si rivolgono ad un mercato più competitivo per approvvigionarsi.

Ne abbiamo parlato molte altre volte, e con maggiore chiarezza a partire da sei mesi fa con un lungo articolo [«Autostrada: “l’è tutto da rifare”» su Figisc Anisa News Speciale ANISA n. 9 del 23 marzo 2017], e le cui argomentazioni non solo sono tutt’ora attuali, ma semmai maggiormente confermate dall’evoluzione e dai numeri.

Ed a proposito di numeri, ANISA ha aggiornato per il terzo anno un proprio studio sullo stato della rete, che viene dettagliatamente illustrato in questo numero speciale – dedicato cioè all’autostrada – di Figisc Anisa News.

Troppe statistiche? Può essere, ma le analisi economiche – e noi rappresentiamo e cerchiamo di tutelare entità e persone che sono a tutti gli effetti (per scelta, per forza o per caso poco importa!) imprese che svolgono attività economiche – dovrebbero servire a capire verso quale direzione andiamo, «dovrebbero» (il condizionale è d’obbligo, perché pare che questo, invece, normalmente non avvenga, forse per una scarsa propensione a guardare le cose per come sono rispetto a come ci è più comodo immaginarle) informare la nostra attività, le nostre scelte, il nostro agire, proprio in forza di quella funzione di «rappresentanza» che sosteniamo di svolgere,

La presentazione di questo studio aggiornato casualmente coincide con la ripresa, dopo il periodo feriale, dell’attività «sindacale», con tutte le questioni aperte ed i nodi lasciati a fine luglio, gli stessi, tra l’altro, rigirati e rimasticati infruttuosamente da anni. Come una specie di grafico, dove c’è una linea diritta – che rappresenta la staticità, ossia assenza di evoluzioni, la riproposizione di tematiche, formule e strategie consuete – che viene intersecata da un’altra linea, questa sempre più discendente – che esprime, invece, il contemporaneo peggioramento dello stato del comparto e delle condizioni di chi vi opera -.

Per questo, anche a costo di ripeterci {non per la seconda, ma per la quarta volta [si vedano anche i numeri di Figisc Anisa News n. 15 del 20.06.2017 («ANISA: o cambia qualcosa, o ognun per sé») e n. 16 del 17.07.2017 («ANISA: se l’accordo un totem…»)], ma del resto non si tratta di tatticismo, siamo convinti, a torto od a ragione, di quel che sosteniamo}, intendiamo rivolgere un appello, una specie di ultima chiamata, a tutto tondo, verso il nostro mondo e verso quello dei nostri interlocutori nel comparto, a riflettere su alcune questioni di fondo.

Se in questo comparto – dove, in tutta evidenza, manca un progetto industriale e relazionale che affronti sia i nodi a) della ristrutturazione reale della rete (ossia qualcosa di completamente diverso, se non altro quantitativamente – si dovrebbero chiudere un centinaio di aree -, da quanto previsto dal decreto interministeriale del 2015), sia b) della ristrutturazione della logica dei prezzi (ossia la normalizzazione nel mercato e il riposizionamento competitivo, sgonfiando il «dopaggio» indotto dalle royalty, dalla esasperazione del delta prezzo tra modalità di servizio, delle politiche commerciali che penalizzano il comparto rispetto alla rete ordinaria), sia c) del quadro dei rapporti con le gestioni degli impianti sia sotto l’aspetto contrattuale che economico -, ripartire dagli stessi schemi e dallo stesso punto su cui siamo da anni insabbiati come se nulla fosse mai cambiato, se non le lancette dell’orologio, appare quanto meno poco realistico e difficilmente ragionevole e comprensibile.

Che di questo non siano consapevoli, in buona o cattiva fede, le controparti, non fa specie.

Del resto, dopo il disastro delle politiche dei prezzi adottate dalle compagnie da anni che, invece di preoccuparsi della deriva del comparto, altro non hanno fatto se non gettare la polvere sotto il tappeto, cioé rifilandola all’ultimo anello della catena distributiva, la parola d’ordine che sembra prevalere oggi è, schematicamente, che l’unico «gestore buono», anzi l’«unico gestore» e basta, è quello che vende qualcosa al servito (con un delta sempre crescente ed ingiustificabile, che sfiora e supera i 20-30 cent/litro) o che spinge sui prodotti speciali, il che equivale esattamente a «remare contro» tutto ciò che strategicamente servirebbe a questa rete in considerazione del suo comprovato default competitivo.

E se si pensasse, ad esempio, che – nonostante l’evidente stato del comparto -, in adesione forzata o consapevole a questa impostazione della controparte, si possa accedere ad eventuali nuovi accordi economici che siano costruiti su ipotetiche marginalità che si generino dalla vendita di prodotti speciali o più semplicemente da un maggior margine sulla vendita in servito, e che questo sia il coniglio nel cilindro per salvare i conti delle gestioni, diciamo che non ci siamo proprio.

Come non ci siamo proprio se tutta la questione dei nuovi contratti dovesse ruotare solamente attorno ad un’unica variabile (il contratto di commissione), che sembra oggi (a differenza di alcuni anni or sono, in cui poteva avere senso quando il margine veniva intaccato per sostenere politiche di sconti che superavano di x volte il margine stesso) esattamente e strettamente funzionale a voler togliere alle gestioni qualunque strumento per garantire copertura ai costi.

Non solo l’intero mercato è totalmente cambiato, ma il comparto autostradale in questo mutamento costituisce una «singolarità» assolutamente rilevante per la sua progressiva marginalizzazione e per il ritmo con cui tale processo di impoverimento è maturato.

Qui, per il tempo che resta alla consunzione che attende il comparto se non interviene un drastico cambio di direzione, ed in ogni caso nell’interesse del consumatore, del gestore, di chi vi opera in genere – al di là di chi percepisce comunque le rendite -, le questioni sono due:

a) l’unico accordo economico che possa restituire dignità di impresa e normalizzare questo mercato, con una funzione positiva esercitata anche dalle gestioni, riguarda «semplicemente» il prezzo di cessione a condizioni eque, e per arrivare a questo serve b);

b) per avviare un processo virtuoso verso a), gli istituti contrattuali debbono cambiare in funzione di un mercato diverso dal passato, non focalizzandosi su strumenti che ormai appaiono obsoleti e pericolosi, ma anche altre tipologie (non ultimo, a titolo d’esempio, il contratto di affitto d’azienda o similare).

E se, nonostante le norme sulle nuove figure contrattuali esistano, risulti, come è indubbio, evidente una forte resistenza a cambiare qualcosa – perché così si può indirettamente gestire un abuso della dipendenza economica -, servono norme deterrenti che sono funzionali non solo ad esigenze, che taluno potrebbe considerare solo «corporative» (cioè a sola tutela dei gestori), che rivestono un comune interesse del consumatore e del sistema distributivo.

Sugli «accordi» – tanto per ribadire un concetto già noto – non abbiamo né totemtabù di sorta.

Detto più chiaramente, non abbiamo compulsioni a cercare accordi per forza od a negarli per forza, ma riteniamo che se non si tiene in debito conto il contesto generale (numeri compresi) di questo comparto, se ci dimentichiamo di dove sta andando se non vi si mette una pezza, se equivochiamo sulle intenzioni dei nostri interlocutori a mettercela o meno questa pezza, è difficile pervenire a soluzioni accettabili e non ha molto senso ripetere formule rituali e procedure di mera cortesia.

Perché gli «accordi» non sono buoni in sé, al di là dei loro contenuti, contenuti che diventano tanto più centrali in un comparto «a perdere» come questo.

Fare accordi sta nella mission del sindacato o associazione di categoria che dir si voglia, ma non è una mission che si risolve solo in questo.

Che le «leggi speciali» di settore riconoscano alle associazioni della categoria di contrarre accordi che riguardano norme e condizioni economiche in rappresentanza degli associati e tutelati ha un rovescio della medaglia, che è il concetto della «responsabilità», la quale non è soltanto «morale».

Certo in tempi «normali» – che non ci sono più – si da per scontato che il rappresentante operi nel miglior modo e nella più rigorosa deontologia nell’interesse del rappresentato. Ma se quest’ultimo, di questi tempi durissimi, si ritenesse danneggiato, attenzione, non dalla compagnia che non rispetta gli accordi, ma proprio dai contenuti preventivi di un accordo che i suoi rappresentanti hanno sottoscritto, la «responsabilità» sarebbe davvero ancora solo «morale»?

STEFANO CANTARELLI

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