DI FRONTE AL BIVIO – RAGIONAMENTI PER PROSPETTIVE POSSIBILI…

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Vi sono diversi elementi presenti nelle ultime settimane nelle cronache specializzate di settore che si prestano a considerazioni generali che riguardano nel suo insieme la distribuzione dei carburanti e, direttamente od indirettamente, nello specifico la categoria dei gestori. Per le organizzazioni che rappresentano, con sempre maggiore difficoltà e giustificazione, proprio quest’ultima categoria, si annuncia imminente una verifica su ruolo, iniziative e prospettive possibili. Proveremo, perciò, a seguire il filo di quelle cronache ed a sviluppare e/o confermare da quel filo qualche spunto di ragionamento – condivisibile o rigettabile che sia – che magari possa essere di contributo a tale verifica, pur affrontando anche altre tematiche.

Cominciamo dall’illegalità nel settore, anzi più esattamente dalle misure di contrasto che sono state annunciate nella legge di stabilità 2017, sulle quali ci è necessario tornare – dopo averne pubblicato alcuni stralci sul precedente numero di Figisc Anisa News [n. 26 del 06.11.2016] – con una citazione tratta dalla Relazione Tecnica del Governo sull’articolo 67:

«Le disposizioni di cui al comma 1, lettere a), b), c) e d) dell’articolo in esame sono finalizzate al consolidamento delle potenzialità di controllo dell’Agenzia delle dogane e dei monopoli sulla catena distributiva dei prodotti petroliferi ad imposta sospesa, con finalità di contrasto alle frodi riscontrate nel settore su carburanti di provenienza comunitaria, specialmente a seguito dell’incremento di circa il 30% delle aliquote sul gasolio e sulla benzina negli anni 2011-2012. … è possibile ragionevolmente stimare un recupero di tax-gap, a regime, per effetto della applicazione di tutti i predetti quattro provvedimenti, in almeno 100 milioni di euro annui.

Tenendo conto che, nel 2015, le entrate erariali derivanti dalle immissioni in consumo di prodotti petroliferi sono state di euro 25.752.063.577,42, di cui euro 5.015.485.314,03 dagli impianti di produzione e, per i restanti euro 20.736.578.263,39 dai depositi commerciali gestiti in regime di deposito fiscale, … con un efficientamento della logistica fiscale cautelativamente stimato nell’ordine del 5 per mille, la modifica normativa in esame potrà comportare, a regime, a parità di altre variabili esogene, un incremento del gettito per le accise di 105 milioni di euro annui.».

Primo: il documento afferma senza tanti giri di parole che vi è un nesso causale e temporale tra aumento delle accise e sviluppo del fenomeno dell’illegalità, anche se gli effetti in termini quantitativi sono stati «annacquati»: a cavillare, infatti, se è «quasi» vero che l’incremento delle accise è di circa il 30 % [per la precisione del 29,15 % per la benzina e del 45,96 % per il gasolio], è ancor «più» vero che negli ultimi cinque anni tale aumento, addizionato dell’IVA che grava sull’imponibile dato dall’accisa, vale in realtà il 31,30 % per la benzina ed il 48,39 % per il gasolio, con il gasolio che vale mediamente dal 2011 al 2016 più del 70 % dei consumi, determinando così una media incrementale del 43,5 %, ossia quasi il cinquanta per cento in più di quanto asserito nella relazione tecnica. In cinque anni tale incremento è costato a famiglie ed imprese qualcosa come più di 31 miliardi di euro.

E l’ «effetto Laffer» – [dal nome dell’economista che spiegò nel 1980 al Presidente Reagan che doveva diminuire le imposte dirette per evitare il ristagno dell’economia e la diminuzione delle entrate fiscali] da noi scomodato in tempi passati ben due volte [Figisc Anisa News n. 21 del 23.04.2012 e n. 4 del 04.02.2013] – si sarebbe dispiegato in una crescita di sistemi e forme illegali per sottrarre imposte nella circolazione dei carburanti.

La seconda considerazione è che sembra emergere una enorme sproporzione tra la percezione dell’ampiezza del fenomeno della illegalità ed i risultati attesi dalle misure di contrasto. Secondo la citata Relazione Tecnica, infatti, i risultati attesi sono computati in circa 200 milioni di euro/anno, a fronte di una «percezione» [ma non mancano, forse, anche aspetti di «amplificazione»] che riferisce dati che ammonterebbero al 10-15 %, ad addirittura al 20 %, di prodotti petroliferi che viaggiano in regimi illegali. Due conti in punta di dita: se queste percentuali hanno fondamento significa che si parla di quantitativi da un minimo di 3,8 ad un massimo di 7,6 miliardi di litri, con una imposizione fiscale minima [quella del gasolio, ad esempio, accisa ed IVA su accisa] di 0,750 euro/litro. Il che significherebbe che le misure di contrasto previste hanno un grado di efficacia pari a solo qualche punto percentuale rispetto all’entità dell’evasione. Qualcosa non torna, e, o non torna in misura direttamente proporzionale alla misura dell’esasperazione della percezione del fenomeno, o non torna nei risultati che si attendono dalle misure di contrasto.

Insomma, la fiscalità eccessiva ha intorbidato e sconvolto un mercato che le numerose e reiterate «liberalizzazioni» volevano, per contro, rendere più aperto e «normale». Ed a proposito di liberalizzazioni, si inserisce a fagiolo un altro spunto di cronaca. Sul numero del 18.11.2016 de L’ESPRESSO [all’articolo «Furbetti della benzina, si corre ai ripari», appare la seguente affermazione: «Secondo il sottosegretario all’Economia, Paola De Micheli, la criminalità dilagante è dovuta principalmente alla liberalizzazione del settore, che nel 2012 ha fatto entrare sul mercato nuovi trader, “alcuni dei quali purtroppo sono disonesti e operano con la sola finalità di frodare il fisco e alterare le dinamiche della concorrenza”.

Mettiamo assieme, se pur forzatamente, due fatti «quantitativi» quali lo sviluppo considerevole delle pompe bianche negli ultimi anni e l’esplodere del fenomeno dell’illegalità. Verrebbe da trarre delle conclusioni abbastanza lineari, cioè che il connubio di abuso della fiscalità e liberalizzazioni del settore – queste ultime che tanto hanno nuociuto alla categoria dei gestori, legati mani e piedi esclusivamente al contesto delle compagnie petrolifere – si è tradotto in un flop gigantesco, che ha prodotto una rete inquinata, ha sviluppato una dilagante illegalità ed un danno erariale rilevante, bruciando valori ed assetti del settore con tutte le ricadute economiche e sociali negative connesse e con un avvitamento nel loop di una concorrenza distorta ed artefatta, a fronte solo di limitati calmieramenti dei prezzi, dissipati con effetto moltiplicatore dall’andamento della fiscalità.

Potrebbe essere una ipotesi tutto sommato non priva di plausibilità e una chiave interpretativa della crisi della fase distributiva del settore.

Il rischio – come sempre quando si stiracchiano eccessivamente i concetti che sembrano a tutta prima risolutivi – è, da questa parte del tavolo, ossia i gestori, che questa diventi «l’unica» chiave interpretativa e che subentri ora, oltre che una sommaria condanna del passato, l’aspettativa che, una volta individuata la causa, tutto ritorni poi alla normalità [= come prima ai vecchi tempi] grazie a pochi ed efficaci correttivi. Una chiave da mettere accanto a quella della sempre incompiuta [ma che ormai ha perso, o ha rifiutato per scelta, le opportunità di non dipendere solo dall’oil] «razionalizzazione» della rete – magari non solo degli impianti, ma anche degli operatori inquinati dall’illegalità -, nell’auspicio che, con queste due soluzioni, finisca, insomma, un ciclo di errori e percorsi sbagliati e si apra una diversa stagione, in cui il settore può «ritrovarsi» e comporre le sue contraddizioni e ridare spazi a tutti gli attori che vi operano, gestori inclusi. In altre parole, che dopo un decennio intollerabile, si intraveda una luce in fondo al tunnel. Ma…..

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Si è già più volte affermato che la complessità del mercato non sembra consentire analisi di comodo: un mercato «ripulito» non sarà solo per questo meno competitivo di ora.

Viene opportuno qui citare un particolare dei tempi che furono, quando [da STAFFETTA del 27.09.2000] il compianto Presidente Nazionale FIGISC, Ottorino Millo denunciava all’Antitrust che «in accordi stipulati tra Ministero dei Trasporti ed autotrasportatori… è stato concordato un possibile ripristino nel tempo del differenziale rete ed extrarete, esistente in precedenza, che ammontava a circa 150/200 lire al litro rispetto all’attuale, che è di circa 50 lire al litro e che aveva finalmente eliminato la concorrenza che esisteva tra rete ed extrarete». Sedici anni fa, ormai, il delta prezzo tra rete ed extrarete era, quindi, di 2,5 cent/litro. Oggi, nel mercato «legale» questo valore è cinque volte tanto sul self e dieci volte tanto sul servito, per non parlare del mercato forse illegale, più sì che no, ove si sono avute offerte – come si è riportato nella stampa specializzata – a Platt’s -15, a Platt’s -45. E senza contare che oggi è «solo» il prezzo extrarete – e non sarà certo mai più il contrario – a governare «tutto» il mercato, a fissare il benchmark su cui tarare anche i prezzi della rete e su cui modulare la forbice tra servito e self con tutti gli annessi e connessi della concorrenza in margini ed erogati. Si potrà pure ripulire il mercato dalle frange più o meno estese di illegalità, ma ciò non cambierà, soprattutto per i gestori, i fondamentali strutturali finché la rete rimane, come un’eccezione anacronistica, ingabbiata in rapporti e meccanismi commerciali che sono diversi dalla flessibilità del mercato «vero».

Si innesta, in questo complesso ordine di cose, un altro aspetto: questo è un settore «maturo», forse più ancora che maturo, un settore «a scadenza», come i prodotti alimentari. È di nuovo il caso di ricorrere ad una citazione: sempre sulla STAFFETTA [14.11.2016] troviamo che Raffaele Tiscar, Vicesegretario Generale della Presidenza del Consiglio, nel contesto della sessione «Proposte per una nuova strategia energetica nazionale al 2030 dopo la conferenza di Parigi sul clima» presso gli Stati generali della green economy, dice testualmente che «Serve il coraggio di stabilire che da una certa data, che sia tra 10, 15 o 20 anni, i veicoli non elettrici non potranno più circolare. Scelte di campo nette, dunque, come quella per la mobilità elettrica, dovranno esser fatte con coraggio per tracciare il percorso del domani, che sarà responsabilità di tutti i governi del Paese da qui in avanti». Una variabile sovranazionale e trasversale che comincerà a caratterizzare fin da oggi, sia pure gradatamente, il mercato di domani. In sostanza, dopo la fine del mercato apparentemente «normale» e ancora nel pieno di un mercato in crisi di fattori di riordino [ma la disaffezione di primarie compagnie, la terziarizzazione della fase distributiva sono tendenze di riorganizzazione innegabili, anche se magari non gradite], ci si avvia verso una riconversione di prodotti e servizi per via di dinamiche che non sono neppure endogene al mercato.

Tornando ai gestori ed alle loro organizzazioni, come si può approcciare questo «disordine» nel tempo che ragionevolmente può intercorrere prima che il settore diventi tutt’altra cosa? Questo «disordine» ha minato la categoria nel profondo, ne ha scosso le condizioni economiche che ne giustificano la sostenibilità dei conti, e lo stesso rapporto di credibilità delle loro organizzazioni per via del divario crescente tra la capacità di tutela e le smentite del mercato.

Le strade sono almeno due: o ci si arrocca nella difesa sempre più strenua dell’esistente – in termini di istituti contrattuali e sistemi di rapporti con le aziende -, sapendo che sempre più la tutela legale può forse essere maggiormente efficace di quella «sindacale», mettendo nel contempo sempre più in crisi quest’ultima, o si affronta un percorso complesso e difficile, che può o non può produrre risultati concreti a seconda della volontà o assenza di volontà di confronto delle controparti, che parta da una reinterpretazione del ruolo, dei contratti, dei rapporti del gestore, con un ripensamento generale di questa figura.

Non è che manchino del tutto gli strumenti. La politica, che di solito ha fatto cose sbagliate per questo settore – dalla fiscalità eccessiva alle liberalizzazioni, dalle tentate spartizioni del mercato tra monopoli certi e presumibili duopoli [GDO] alle mancate razionalizzazioni -, ha anche dato, magari solo sull’onda delle pressioni mediatiche sul prezzo, e quindi involontariamente in parte, degli strumenti, per quanto molto imperfetti e generici, per tentare qualcosa di diverso che il settore nel suo insieme – per responsabilità diverse tra le parti e dettate da opposte motivazioni – non ha raccolto affatto, lasciando quelle pur perfettibili opportunità poco esplorate e soprattutto assolutamente inattuate. Risultato è che ora sono alcune delle controparti economiche naturali dei gestori a darne una lettura ovviamente arbitraria e di comodo, ed a spingere «di forza» per adottare quelle ritenute più convenienti ai propri scopi.

I processi di terziarizzazione intervenuti in questi anni – e quelli che interverranno a seguito della fuga di importanti marchi o per tendenza complessiva del settore –, per di più, hanno anzi sottratto dal quadro della concertazione sempre parti più rilevanti della rete. Le cessioni, detto in soldoni, di «pacchetti» a retisti importanti stanno avvenendo, per ovvie ragioni di prezzo, senza trasferire parimenti impegni e contratti verso le gestioni, una «precauzione» che diventerà sempre più diffusa anche sfruttando i «buchi» della legislazione di settore ed i limiti della contrattazione esclusiva tra rappresentanze nazionali.

D’altra parte, la concertazione di nuovi strumenti contrattuali sembra concentrarsi – secondo tradizione consolidata che ha già mostrato i suoi pesanti limiti – verso «una unica» soluzione alternativa. Comunque sempre nelle strettoia di questa specie di «anomalia» della rete rispetto al mercato di cui si è detto sopra.

Esiste, pertanto, il problema di ricondurre a contrattazione e definizione dei rapporti tra gestori e parti della rete che stanno «migrando» nei processi di terziarizzazione in un’area di non-tutela. Esiste la precarietà degli accordi che, basati sul nesso margine-erogato, sono schiavi delle mutevoli od esasperate politiche commerciali delle aziende. Esiste il consueto spauracchio della espulsione del gestore per effetto della automazione integrale della rete, rimanendo sullo sfondo comunque la questione irrisolta di «riportare al centro della trattativa il valore stabilmente determinato della remunerazione del servizio offerto da una figura imprenditoriale che organizza risorse umane nel contesto di una filiera distributiva» [Figisc Anisa News n. 38 del 17.09.2012] o, come dicono i tedeschi, «al fine che i gestori delle stazioni di servizio riescano ad ottenere un reddito adeguato e sufficiente per vivere».

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E se questo riguarda la gestione dell’esistente attuale ed immediato, non si può non ragionare anche in un’ottica di prospettiva per quegli anni di maturità che stanno ancora davanti nel settore prima della sua mutazione «genetica».

Per quanto ancora ha senso «congelare» solo queste forme contrattuali? Fino a che punto può reggere un vincolo, come quello dell’esclusiva, che si giustificherebbe solo come tutela di contenuti di know how rilevanti [Regolamento CE/2790/1999], circostanza che non ha alcun riscontro proprio per l’evoluzione del mercato in questi anni? La terziarizzazione della rete è solo «spacchettamento» a blocchi? In sostanza, in un mercato «più normale», a somiglianza di quanto accade altrove, solo da una pluralità di figure e ruoli – e quindi di rapporti commerciali, contratti e funzioni – può venire un apporto positivo alla distribuzione, ai prezzi, al consumatore, in quadro peraltro che può essere meno conflittuale in un orizzonte di rischi, doveri e reciprocità complessivamente più equilibrate.

Alcuni anni fa – cogliamo l’occasione per ritornare su questo argomento che ha allora diviso le organizzazioni di categoria e su cui serve tuttavia oggi un giudizio a distanza di tempo equilibrato – l’iniziativa di «Libera la benzina» è stata forse prematura e schematica rispetto ad un quadro normativo ancora «ingessato» e senza paracaduti alternativi per la categoria. Oggi, dopo che sono da tempo in vigore norme che, salvo contrattazione tra le parti, consentono anche strumenti diversi, oggi che diversi fatti inducono purtroppo a dubitare ragionevolmente sulle capacità, o sulle volontà, o persino sui tempi utili anche se la volontà ci fosse, per il settore tradizionale di «ricompattarsi», forse ciò che serve davvero è un «Liberiamo i contratti», una mission che toccherebbe ancora una volta assolvere da parte dei gestori, con tutte le alee di dover ridisegnare un ruolo pluralista e composito della categoria e delle sue organizzazioni.

Naturalmente, questo ragionamento può essere sbagliato, magari è più rassicurante e prudente tenersi duri all’attuale situazione.

Siamo d’accordo con chi sostiene che finché c’è anche un solo gestore da tutelare ci sarà il «sindacato», se non altro perché questa dovrebbe essere la sua funzione. Ma se c’è in effetti «un solo» gestore da tutelare, vi sono solo due possibilità: o che la grande maggioranza dei gestori è già ben tutelata o che la categoria si è assottigliata al punto da ridursi a marginalità.

Essendo francamente difficile sostenere la prima eventualità, se è invece vera la seconda vuol dire che – anche togliendo la pesante tara della protervia della controparte, dell’imbastardimento del mercato, ecc. ecc. – qualche sia pur involontario errore per strada è successo. Ecco, questo è il bivio che sta davanti, adesso. [G.M.]

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