INTERVISTA AL PRESIDENTE NAZIONALE FIGISC, BRUNO BEARZI
— 6 Aprile 2019Al Presidente Nazionale (ancora relativamente “fresco” di elezione, avvenuta appena tre mesi fa) di FIGISC, Bruno BEARZI, la Redazione ha posto alcune domande a tutto campo che spaziano dalla grave crisi della categoria alle iniziative di mobilitazione appena annunciate, dalle tematiche dei contratti e degli accordi al ruolo delle rappresentanze dei gestori; ciò che ne emerge è non solo una sorta di “programma”, che sarà sottoposto al vaglio della Federazione, a partire dal Comitato di Presidenza che si terrà il 9 aprile, ma anche un percorso di intenso lavoro da condurre con il concorso della struttura di qui in avanti.
Le Organizzazioni di categoria hanno in questi giorni annunciato l’iniziativa dello sciopero “bianco” del servito; denunciano la crisi profonda dei gestori e puntano dritto il dito contro il differenziale del prezzo tra le due modalità di vendita, che penalizza il consumatore, sballa i conti alle gestioni, arricchisce le compagnie. Si va verso la generale mobilitazione, dunque, ma con quali obiettivi?
Tornando indietro di qualche anno, dopo la rincorsa agli sconti sul self (pagati in parte col margine del gestore) ed il ricatto della ghostizzazione della rete, le aziende cambiano registro: il gestore ridiventa “centrale” nel sistema, e ad esso, per dirla cruda, si “concede” di rimanere sulla rete a patto che giustifichi il suo ruolo organizzando la sua impresa per vendere il servizio ad un prezzo sensibilmente più alto, al fine di creare marginalità aggiuntiva per le compagnie. Da questo cambio di registro ad oggi, il delta prezzo è “mediamente” più che raddoppiato, ossia da 7 a 16 cent/litro (si sta parlando, si badi, solo del delta sulle medie nazionali del prezzo, perché i differenziali in plurime situazioni raggiungono e superano i 30 cent/litro). Dal momento che l’aumento del delta prezzo tra servito e self è pari a più di cinque volte la diminuzione, nello stesso periodo, del gap del prezzo self tra impianti di marchio petrolifero ed operatori indipendenti, è fin troppo chiaro che le aziende stanno portando assai più fieno in cascina di quanto ne impieghino per fare “difesa mercato”. Dall’altra parte del banco, da un lato il consumatore al servito paga una vera e propria supertassa (come non ce ne fossero già abbastanza!) che non ha giustificazione di sorta. né rapporto alcuno, col servizio fornito vero e proprio, dall’altro il gestore, partito ad riorganizzarsi con una aspettativa di margine medio che giustificasse i costi della riorganizzazione, ed in base ad accordi che partivano da un certo delta prezzo, si ritrova ulteriormente penalizzato.
Gli “strumenti” dello sciopero “bianco” sono abbastanza evidenti: inceppare la fabbrica dei margini disinvolti delle aziende, intercettare l’interesse e la solidarietà del consumatore, attirare l’attenzione dell’opinione pubblica, della politica e delle istituzioni su un fenomeno che ha dello scandaloso e su cui per contro, sembra strano!, le Authority sono silenziose ed assenti. Gli “obiettivi” sono quelli di farsi sentire, su un piano di maggiore forza e pressione, da aziende e governo, per ripartire a discutere sulle cose di sempre: settore, contratti, margini, sopravvivenza della categoria, o, più correttamente, giustificazione economica di tanti microimprenditori che garantiscono, insostituibilmente, la fase finale della filiera distributiva.
Si potevano trovare altri strumenti? Dipende…La proposta unitaria dice chiaramente “Chi ha di più da perdere?”, minacciando di mettere sabbia nell’ingranaggio dei margini aziendali; ma un’altra via poteva essere la denuncia delle clausole sul “prezzo massimo”, consentendo ai gestori di recuperare direttamente qualcosa sui propri disastrati conti; né si può escludere che ambedue i percorsi siano da intraprendere anche contemporaneamente dal momento che i meccanismi degli accordi relativi al prezzo massimo sono così rigidi da non consentire, per la durata degli stessi, a fronte di situazioni impreviste e devastanti per le gestioni, di assorbire maggiori costi, cambiamenti del mercato, ecc., insomma, di non difendersi da nulla, tutto il contrario di un mercato “normale”.
Detta con chiarezza, che peso possono aver avuto in questa svolta alcune forme spontanee di aggregazione “alternativa” ed autoconvocazione di gestori nel territorio?
Che fosse ora di riattivare una mobilitazione della categoria era convinzione delle organizzazioni non da oggi, indipendentemente dalle “forme spontanee” cui ti riferisci, che, peraltro, si originano come causa scatenante all’interno di precise situazioni aziendali o di non rispetto degli accordi e/o di grave danno nei rapporti economici con le aziende, per poi allargarsi a tutta l’area del disagio.
Ma che queste forme siano la spia di come la gravità della situazione possa determinare uno scollamento tra le rappresentanze ed i loro rappresentati è un fatto. Gli autoconvocati meritano rispetto ed attenzione, non certo fastidio od atteggiamenti di “sufficienza”. Soprattutto, bisognerebbe ritornare con una rinnovata capacità di ascolto al rapporto con i gestori, anche esponendosi a critiche e riconoscendo, se ce ne sono, gli eventuali errori di percorso, facendo, fuori da autoreferenzialità, credito autentico alla loro capacità di pensare e proporre.
A proposito, ti sei presentato sin dall’inizio con una specie di must “Prima il gestore”. Cosa intendi con questo concetto, che non sembra proprio solo un mero slogan (che del resto potrebbe essere dato per scontato per una organizzazione di categoria)?
Uno slogan certamente scontato se vogliamo, visto che la deontologia minima di una associazione di rappresentanza o di un sindacato che chiamar si voglia è quella della tutela dei suoi associati, ma forse non del tutto così scontato, se si considerano più attentamente alcuni aspetti. In questo settore, conformemente alle norme vigenti, gli accordi che si fanno con le aziende sono sottoscritti dalle organizzazioni, che stipulano per conto dei terzi gestori dei “patti” che hanno dettagliati contenuti normativi ed economici (margini, incentivi, prezzi massimi, procedure cali, ecc.), i quali hanno un riflesso concreto e diretto sul risultato economico delle gestioni: un ruolo delicatissimo che però, come ci insegnano le varie vicende giudiziarie, non si estende fino alla tutela legale del singolo gestore, che deve difendersi da solo in caso di inadempienza al patto (o di insufficienza del patto stesso a garantire una sostenibilità economica) stipulato per suo nome e conto.
Che si tratti solo di uno slogan, quindi, è riduttivo, piuttosto è una riflessione sulla responsabilità che incombe sull’organizzazione di categoria, sulla necessità di adoperare tutte le diligenze e tutte le competenze (a meno di non voler essere tuttologi) nella sottoscrizione dei “patti”. Dei quali può darsi che talvolta l’organizzazione valorizzi eccessivamente aspetti “politici” reali o presunti che il gestore difficilmente però può percepire come gratificanti, soprattutto se questi specifici aspetti sono in toto od in parte sostitutivi di contenuti economici modesti o peggiorativi, e di regole generiche od insufficienti a tutelarlo nella sua attività. E più aumenta lo spread, per usare un termine abusato, tra queste due facce della medaglia, più crescono disaffezione e scollamento.
Il settore somiglia sempre più al classico pugile “suonato”: per il politically correct è ormai considerato residuale, alcuni marchi storici sono fuggiti spacchettando o cedendo in blocco, la maggior parte della rete è in mano a privati, le logiche industriali hanno lasciato il passo a quelle finanziarie e commerciali estranee al sistema tradizionale. In tutto questo, come non fosse già troppo, l’illegalità (se ne parla in altra parte di questo stesso numero) prende sempre più piede sfruttando con vecchie e nuove “abilità” i “buchi” della normativa fiscale…
Il mercato dell’illegalità, secondo diverse stime di valutazione, riguarda il 15 % dei volumi di carburanti complessivamente commercializzati, con un controvalore in termini di imposte, visto l’alto prelievo unitario (assai più elevato di quello della media europea), di miliardi di euro annui e, nonostante le notevoli misure di contrasto già adottate in via normativa e l’ingente attività svolta dagli organi preposti, il fenomeno rimane ancora rilevante, soprattutto per carenze riferibili al controllo dei depositi fiscali. Peraltro, mentre sulla rete “legale” non si investe più, in quella “illegale” si creano risorse che servono ad acquisire altri pezzi di rete.
Oltre alla perdita di gettito erariale ed all’inquinamento del mercato, l’illegalità colpisce in primo luogo nella rete distributiva, oltre agli operatori onesti, ancora una volta i gestori, i quali (pesantemente vincolati sulle condizioni di acquisto e vendita ed assolutamente esclusi dai canali di accesso al mercato dei prodotti) vedono da questo fenomeno accentuato drammaticamente il gap competitivo dei prezzi di cui già soffrono rispetto alla concorrenza che ha libertà da sempre di agire sul mercato legale, e da tempo anche su quello illegale.
Paradossalmente, e quindi danno e beffa, proprio sulla categoria che meno appare suscettibile (per ragioni, come appena detto, di regime contrattuale e di assoluta non accessibilità al mercato dei prodotti) di essere collusa all’illegalità, e da questa direttamente danneggiata, gravano oggi, dopo la recente introduzione dell’obbligo di tracciabilità dei pagamenti e della fattura elettronica, sia l’aumento dei costi della monetica, che da soli già intaccano significativamente il margine lordo (solo in parte corretti dalla possibilità di recuperare un credito di imposta sul 50 % degli oneri di commissione sugli acquisti di carburanti, sulla cui fruibilità concreta dovrebbe avere fatto infine chiarezza il decreto “Crescita” appena approvato dal Consiglio dei Ministri il 4 aprile), che i costi diretti connessi al nuovo obbligo. Un obbligo, si noti, che con tutta la più buona volontà non si può certo definire una misura di contrasto alla vera illegalità “macro” del settore, quanto una molto più modesta misura deterrente alla “micro” elusione diffusa di imponibile fiscale di imprese e professionisti, insomma l’abuso della “carta carburante”.
E se fin qui si parla di illegalità fiscale, vi sono altri aspetti che o sono illegali in senso stretto, o al minimo quantomeno border line, quali la diffusione del precariato degli operatori, la violazione del diritto del lavoro, forme di contrattualistica irrituale in aperta elusione delle norme specifiche del settore. Aspetti tutti, dunque, di “illegalità” a vario titolo e misura che si sommano alla “mancanza legale di regole”, ossia a quelle vere e proprie storture del sistema, legate al rigido meccanismo di controllo della filiera del prezzo nella catena distributiva da parte dei proprietari degli impianti e fornitori dei prodotti, che impediscono ogni autonomia e sostenibilità economica delle gestioni, con abuso di dipendenza economica e disparità di condizioni per una minima competizione sul mercato.
Tornando alla categoria, margine “unico” o “minimo”, o versioni rivisitate e corrette della già nota “trattativa negoziata”, sembrano essere, con sfumature più o meno accentuate, i titoli del dibattito più in evidenza sia tra alle organizzazioni di categoria che nei gruppi “autonomi” che si cominciano ad aggregare sul territorio.
Rispetto ad alcuni dati sui margini rimbalzati in questi giorni vanno corrette alcune esagerazioni: tornando indietro di venticinque anni (1994) il margine medio (allora si vendeva il 70 % di benzina ed il 30 % di gasolio ed il margine era differenziato per i due prodotti) era di circa 70 lire/litro, grosso modo 3,5 centesimi di euro. Dopo l’unificazione del margine tra i due prodotti è arrivata la differenziazione tra le modalità di vendita, sempre più accentuata in funzione al prezzo ed alla concorrenza, per cui il self oggi viene remunerato con la metà del margine sul servito, con una quota di vendite che supera i tre quarti del totale. Vero è senz’altro che dal 2000 il margine lordo del gestore, tenendo conto dell’inflazione, ha perso circa il 45 % del valore, i costi sono aumentati del 40 % e le vendite della rete sono calate del 28 %, almeno questi sono i macrodati che spiegano crudamente la situazione delle gestioni.
Il margine “unico” vorrebbe essere la risposta alla divaricazione crescente del delta prezzo fra le due modalità che fa sempre più pendere la bilancia su quella che remunera peggio la gestione, ed ha il suo corrispondente nelle rivendicazioni o di una limitazione del delta prezzo in termini assai più contenuti di quello attuale o addirittura di una imposizione di un “prezzo unico”. Così come il margine “minimo” dovrebbe essere la rivendicazione per garantire un minimo di sopravvivenza alle gestioni, per assicurare, insomma, una giustificazione economica. Entrambi i termini sono di facile presa, l’uno o l’altro sembrano la soluzione più semplice ai problemi.
Il minimo “sindacale” però è un concetto che si applica al lavoro dipendente e, a meno di non voler sposare la causa (ponendo fine ad ogni “finzione” giuridica diversa) che il gestore è a tutti gli effetti un lavoratore subordinato con i relativi diritti, il gestore è ancora, almeno sotto l’aspetto formale, un’impresa (micro) o comunque un lavoratore autonomo.
Definire cosa e quanto sia un margine “giusto” (usiamo questo termine più comprensibile) può solo essere una approssimazione che grosso modo corrisponde alla possibilità di sostenere i costi e di remunerare il lavoro ed il rischio del gestore; sul piano pratico, può trattarsi di una riedizione riveduta e corretta della cosiddetta “trattativa negoziata” di antica memoria. Si tratta di valutare se è un passo avanti oppure se diventa un ulteriore strumento di integrale controllo one-to-one delle gestioni, in tutti gli aspetti organizzativi e persino contabili, da parte della compagnia/fornitore. Comunque si consideri, si tratta di concetti di principio (più che un valore “x pro-litro”, che, per inciso, assai difficilmente può essere stabilito “per legge”), quali la “sostenibilità economica e profittabilità dell’impresa”, che vanno inseriti nelle così dette norme “speciali” di settore, che ad oggi parlano, invece, solo di generiche “eque condizioni per competere”.
Quali che siano le soluzioni possibili (il dibattito è uno scenario aperto), i nodi sono due: primo, che la situazione economica delle gestioni è esplosa e che non è possibile continuare con gli accordi al ribasso; secondo: quale sia l’interlocutore per queste legittime rivendicazioni, dal momento che, da un lato, c’è una politica ormai “distratta” e lontana nei confronti del settore, dall’altro c’è un settore assolutamente destrutturato, in cui i nuovi entranti (che siano il prodotto degli spacchettamenti della rete o della concentrazione poco importa) hanno esasperato al peggio le condizioni economiche della categoria, mentre i soggetti più strutturati avranno buon gioco per allinearsi a questo peggioramento in fase di rinegoziazione degli accordi.
Che sia difficile trovare la “soluzione buona per tutto” e soprattutto che possa essere duratura ed efficace verso i cambiamenti del mercato e del settore lo dimostrano purtroppo le vicende degli ultimi dieci anni; oggi per di più si è determinata sulla rete una situazione estremamente diversificata della categoria stessa, in cui l’unico fattore unificante è la generalizzata crisi delle gestioni…
In effetti nella crisi generalizzata vi sono realtà abbastanza diverse, per cui anche i percorsi per correggerle non possono risolversi nella formula magica buona per tutto e per tutti. Ci sono, dal minimo al massimo, vari assi di intervento su cui dover intervenire con criteri che devono essere adeguati al grado di difficoltà e disagio, ma anche relazionati ad una prospettiva più ampia.
Vi è da tempo un’area “grigia”, che si sta sempre più estendendo dopo lo smembramento di parte della rete, in cui non esiste alcuna forma di tutela, e non ci si riferisce solo alle figure atipiche, ed anzi sostanzialmente illegali rispetto alle norme del settore sotto il profilo contrattuale, ma anche a tutte quelle situazioni in cui operatori arrivati sul mercato (ma direi non solo questi) fanno strame del sistema legale delle relazioni con i propri gestori, praticano sistematicamente il ricorso alle pattuizioni individuali o “fingono”, nel meno peggiore dei casi, di proporre accordi fortemente peggiorativi delle condizioni economiche.
Serve, a tutela di questa fascia di gestori “non garantiti” da nulla, un intervento normativo diretto che rimuova i comportamenti difformi, obbligando i soggetti che affidano gli impianti in gestione al rispetto della contrattazione ed all’applicazione esclusivamente dei format contrattuali tipizzati, indipendentemente, tra l’altro, dall’appartenenza o meno alle associazioni di rappresentanza dei titolari di autorizzazione. E, sottoscrivendo integralmente una proposta di FAIB, la tutela verso questa fascia deve estendersi anche concretamente al piano economico, prevedendo, ad esempio, che il trattamento minimo applicabile debba essere corrispondente alla media dei margini relativi agli accordi depositati al MiSE.
Quanto alle situazioni in cui sussistono relazioni più “normali”, ossia figure contrattuali definite e si fanno accordi, si è già detto prima che questione di fondo è non tanto la definizione quantitativa di un margine in sé, quanto la sua relazione funzionale alla sostenibilità economica delle gestioni, in un contesto in cui, peraltro, il margine stesso, qualunque esso sia, non può essere considerato a sé stante rispetto a tutta una serie di clausole di pattuizione che incidono direttamente sul risultato, dal delta prezzo tra le modalità di vendita al riconoscimento dei cali, dalla gestione delle partite di dare/avere fino ai meccanismi per cui si concede al fornitore di “mettere le mani” nella tasca o nel conto corrente del gestore solo a senso unico.
La “intangibilità del margine” – un principio positivo che almeno chiarisce che, differentemente dal passato, al gestore non viene chiesto di metterne una parte per sostenere gli sconti -, non può però esaurirsi alla sola determinazione del margine stesso, se tutta una serie di fattori, generalmente poco sviluppati ed analizzati, porta poi a decurtare significativamente quel margine. Alla medesima stregua, le famose “eque condizioni per competere” non possono continuare ad essere un puro principio decorativo, che non trova nessuna precisa definizione negli accordi e che quindi non ha nessuna efficacia pratica per tutelare il gestore.
Infine, in prospettiva più ampia, si pone la questione della vera “asimmetria” di questo settore, in cui, da un lato, il gestore non ha alcuna autonomia di fissare il prezzo di vendita al consumatore finale sulla base del proprio conto economico, mentre il fornitore, dall’altro lato, lo fissa lui con il “prezzo raccomandato”, oltre a mantenere piena autonomia di fissare il prezzo di cessione al gestore del marchio, di fissare un prezzo diverso di cessione ad un gestore di punto vendita sempre del marchio con caratteristiche tecniche diverse dall’altro gestore e/o in una trade area diversa, ma anche a soggetti diversi dai gestori del proprio marchio ed a condizioni di vantaggio (e, come già detto, può persino “mettere le mani in tasca” al gestore).
Si tratta, quindi, di operare proattivamente alla introduzione, sempre in una prassi di tipizzazione concertata, di modelli contrattuali di impresa, atti – sia pure in forma graduale e, volendo, persino preventivamente sperimentale – a superare i vincoli dell’integrale controllo della filiera del prezzo da parte del fornitore; modelli che si sostanziano nello scorporo dal prezzo di cessione, anche in permanenza dell’esclusiva di fornitura, delle componenti economiche o canoni (e tenendo conto del vantaggio dalla permanenza dell’esclusiva) relativi al riconoscimento della remunerazione degli investimenti della proprietà e/o dell’uso del marchio, che potrebbero trovare definizione in strumenti contrattuali (ad esempio, l’affitto di azienda o altri) previsti dalla normativa civilistica, lasciando finalmente al rivenditore finale la libertà di fissazione del prezzo e di conseguire le finalità di impresa che gli sarebbero proprie.
Nessuno di questi aspetti preso in sé esclude gli altri, nessun modello od ipotesi ha la pretesa di essere l’unica applicabile o di costituire la risposta valida per tutto e per sempre. Lungi dal restringere le soluzioni contrattuali possibili, quindi, la strada è cercare di allargarle, valutando quale possa essere la “visione” del posto del gestore nel mercato e nella rete: se, cioè, vada sempre e solo considerato come uno pseudo dipendente da tutelare con un quadro giuridico “imbastardito” a metà tra lavoro dipendente ed impresa, o sia anche da considerarsi un’impresa “vera”, o quanto meno “possibile”, da inserire infine in un quadro giuridico corrispondente a tale qualità per il periodo residuo in cui questo settore, che alcuni danno affrettatamente per morto, continuerà pur sempre ad operare.
Premesso che tutto questo è tutt’altro che semplice, che è un percorso “in salita” in cui nessun passaggio è scontato, anzi… una domanda diretta (che sembra che anche altri probabilmente si pongano) ad un presidente, per di più se “nuovo”, è quasi d’obbligo: serve continuità o discontinuità nel modo di operare e di pensare delle organizzazioni di categoria?
In effetti non c’è nulla di semplice, e talvolta quel che sembra più semplice o facile, alla fine è solo semplicistico. Il percorso è tutto davvero in salita, ma abbiamo il dovere di provarci non solo per un senso di responsabilità, ma anche perché non vi sono alternative percorribili: scordiamoci che questo settore possa tornare a somigliare, anche solo di poco, a quello che era fino a non moltissimi anni fa. E, fra le tante cose di cui avrebbe bisogno, più che di ulteriori “specialità”, avrebbe bisogno di “normalità” e di relazioni e rapporti commerciali ordinari, di “mercato” vero e non di illegalità ed abuso di dipendenza economica.
Quanto alla questione continuità/discontinuità, non credo sia da porsi proprio in questi termini. Le organizzazioni hanno operato nel tempo, sempre, rispetto alle situazioni del momento, affrontando volta per volta difficoltà ed attacchi alla categoria, acquisendo esperienze, segnando significative vittorie in determinate circostanze ed arretramenti in altre; guardando in retrospettiva queste battute d’arresto, prima di assegnare giudizi di qualsiasi tipo dobbiamo considerare con realismo sia i rapporti di forza, sia il fatto che tutto è cambiato e peggiorato più in fretta di quel che si potesse prevedere, cui si deve aggiungere che nessuno, esperienza o meno, può indovinare il futuro e, ancora di più, che nessuno, esperienza o meno, è depositario esclusivo della verità e delle soluzioni.
Non so dire se ci sia “discontinuità” nel voler pensare che siano più utili per il gestore i contenuti economici e le tutele da ricercare negli accordi piuttosto che il valore “politico” intrinseco della negoziazione in sé, nel voler ragionare in termini di “impresa del gestore”, nel ritenere che il ruolo della rappresentanza non possa prescindere dalla responsabilità verso gli interessi e le persone che si intendono rappresentare, od altri concetti che pure ho cercato di esporre in questa intervista. Non lo so dire, e francamente non credo neppure si possa definire discontinuità.
Ma in ogni caso gli unici veramente titolati a rispondere a questa domanda, ed a cui, quindi, questa domanda va correttamente posta (e non si può dire che manchino chiari segnali), sono i gestori.