POLITICA, SINDACATO, GESTORI & VIA DICENDO

AVVERTENZA: Le opinioni ed i giudizi espressi nell’articolo di seguito pubblicato non riflettono necessariamente né in tutto, né in parte l’opinione della FIGISC, ma esclusivamente quella del suo estensore.

La recente vicenda della risposta della Viceministro allo sviluppo economico BELLANOVA sull’interrogazione parlamentare concernente ESSO ed il «modello grossista» ha lasciato basite le organizzazioni di categoria dei gestori [si veda la notizia sempre su Figisc Anisa News N. 3 del 05.02.2017]. Il che si aggiunge ad un precedente riscontro assai poco concludente – anche se tale insoddisfazione non si è espressa in sede pubblica – con il Ministero: l’incontro, richiesto alla stessa Viceministro sin dal settembre 2016, sullo «stato di crisi» del settore [su Figisc Anisa News N. 22 del 21.09.2016], accordato con notevole ritardo ed al quale la Viceministro non si è neppure presentata.

Si accumula un senso di frustrazione verso una politica – e ovviamente verso le istituzioni -, che appare disinformata e sostanzialmente sfuggente ed indifferente alle difficoltà del settore, per non dire poi delle difficoltà della categoria dei gestori. E ciò a maggior ragione perché è dalla politica e dalle istituzioni che ci si attenderebbe una qualche forma di tutela e di mediazione rispetto alla criticità dei rapporti interni al settore, all’evoluzione caotica del sistema e del mercato, ecc. e perché si è consapevoli, ora più che mai, parallelamente, della difficoltà di ricorrere a quelle forme di «mobilitazione» di altri tempi – che servivano a richiamare l’attenzione dei Governi ed a stimolarne la funzione mediatrice -, perché il sistema distributivo, per dirla con una formula elegante, ha già elaborato gli «anticorpi» contro la dipendenza dalle tensioni sociali interne [ossia, quasi metà della rete, tra indipendenti, gestioni paradirette, figure anomale, ecc., è in grado di garantire sempre il servizio, la sua interruzione non è una minaccia deterrente  per nessuno].

Cosa aspettarsi dalla «politica» è difficile persino da pensare.

La politica in senso lato, almeno così come siamo abituati a vederla evolvere, in senso sempre più autoreferenziale, ha aspettative soprattutto per se stessa, parla un suo linguaggio e celebra i suoi riti con grande distacco dai disagi reali della gente, e, se anche di questi ultimi occasionalmente si occupa, lo fa difficilmente per risolverli od attenuarli, più spesso invece per usarli, l’un contro l’altro, per le risse di fazione. Forse è un ragionamento schematico, forse non tanto.

Cosa aspettarsi dai Governi, è altrettanto difficile da pensare. A nessuno sfugge che le stagioni della «concertazione» sono, e non da oggi, finite, che la funzione di governo è sempre più espressa per emergenze ed urgenze varie, che le macro logiche di sistema non stanno neanche più nel Paese, ma sono state devolute, con una cessione di sovranità – reale se non ancora totalmente di diritto -, alla super entità dell’Unione Europea. In questo contesto diventare soggetti sociali, categorie, cittadini «residuali» [in italiano = che non contano nulla, destinati a scomparire, obsoleti] è quasi un esito scontato.

Si aggiunga che oggi parlare di «petrolio» è come essere un cane in chiesa. Un certo pressapochismo ed una notevole ideologicità dell’approccio alle fonti energetiche alternative – per usare un termine volutamente ampio –, rendono parlare di petrolio un argomento da passatisti demodè, complici anche in questo le grandi opzioni comunitarie e l’obbligo a dovervisi  adeguare, sottacendo, oltre a tante altre cose, che nell’equazione economica della sostituzione energetica il costo lo paga comunque il settore tradizionale.

Non che in passato vi sia stata molta attenzione, del resto.

Le istituzioni si sono interessate del settore sempre per la semplice ragione che i carburanti NON sono una merce normale, dal momento che lo Stato è sempre stato il «socio maggioritario» della loro distribuzione [parentesi retrospettiva: dal 1960 al 2016 parliamo di 56 anni, forse non tutti sanno o ricordano che in questo bel gruzzolo di anni l’incidenza media sul prezzo finale delle imposte è stata del 68 % sulla benzina e del 54 % sul gasolio].

I Governi, riservandosi sempre il diritto di prelievo a seconda delle esigenze, hanno gestito senza molto sforzo né dispendio per molti anni alcuni meccanismi di controllo dei prezzi, poi hanno affidato il tutto al mercato, talvolta – come nella stagione delle «lenzuolate» delle liberalizzazioni – prendendo misure mediatiche per dare al consumatore l’impressione che si trattasse di una merce normale, ovvero assecondando le spinte conservative od innovative di questo o quel potere forte interessato a gestire il settore, o ad entrarvi, nel settore, facendo sporadica moral suasion sui prezzi o istituendone l’obbligo di pubblicità. Niente di più, niente di meno.

Da ultimo – e sono ormai trascorsi cinque anni -, subito dopo avere pescato a piene mani nel sacco delle imposte [«Salva Italia»], hanno fatto – e veniamo a quel che ci riguarda da vicino – una cosa che non è affatto la peggiore tra quelle fatte, ma con un suo «retrogusto» amarognolo: hanno consegnato al settore alcune generiche regolette di massima per gestirsi internamente [«Cresci Italia», ossia la legge 27/2012 sulle liberalizzazioni], con la convinzione che fosse anche l’ultima cosa che era da fare e che da allora innanzi del settore ci si dovesse eventualmente occupare solo per aumentare le imposte all’occorrenza [e, infatti, ci risiamo].

In parole povere: «vi abbiamo dato regole, ora arrangiatevi, gestitevi e  non disturbateci per inezie, vi sono ben altre gatte da pelare». Forse anche questo è un ragionamento schematico, forse non proprio tanto.

Che, in aggiunta, cinque anni siano da allora trascorsi senza che quelle regole abbiano avuto una loro pratica applicazione [non ritorniamo a dire la responsabilità non è a senso unico], che non ne siano state corrette le genericità, che non ne siano stati sviluppati i contenuti insufficienti [l’assenza di strumenti di deterrenza ad eludere le finalità ed i princìpi della norma, l’indeterminatezza del danno e del ristoro per la parte soccombente, ecc.], che il livello della conflittualità reale – quella effettiva, piuttosto che quella denunciata – nel settore sia peggiorato, che il mercato si sia incattivito e da ultimo inquinato, che primarie aziende se ne vadano dal Paese o si inventino modelli di terziarizzazione progressiva, sono fatti tutti che non sembrano idonei per concentrare – se non per brevi spot – nuove attenzioni per un settore che serve solo a fungere da vettore per «fare cassa» e che, peraltro, appare «maturo» [in italiano = vecchio], non più prioritario per il «politicamente corretto» del «dopo» petrolio.

Tutto concorre a mettere oggettivamente in difficoltà quel ruolo che le organizzazioni di categoria ritenevano tutto sommato consolidato, ed in qualche modo confermato anche nei tempi più difficili:

a) da un lato, l’evoluzione di tutti i molteplici processi che hanno demolito le rappresentazioni «ideologiche» di un orizzonte di «diritti senza mercato» [il contratto unico, il margine concordato, la filosofia del «meglio vendere di meno, ma con un margine più alto», ed altre semplificazioni siffatte] e quindi reso sempre più evidente lo scarto tra rappresentazione del mondo e cruda realtà dei fatti, tra legittimazione alla rappresentanza ed efficacia della tutela degli interessi rappresentati.

b) dall’altro, il progressivo affievolirsi della possibilità di avere una «istanza di appello» nelle istituzioni e nella politica, istanza disponibile a mediare i conflitti, a fissare regole buone per tutti, dettagliate e durevoli, che contribuiscano ad alleviare le criticità dei gestori, a riconfermare così, con dei risultati oggettivi dall’alto, il ruolo delle loro rappresentanze.

Il disagio delle organizzazioni di categoria verso la politica e le istituzioni distratte, è, dunque, più che comprensibile, visto che il disinteresse della politica, il distacco con cui le istituzioni guardano al settore, ne mettono a rischio la loro funzione, giustificazione e riconoscibilità.

Fare reinteressare al settore, se non per amore, almeno per forza, politica ed istituzioni è una fatica tutta in salita. Del resto, diciamo che il «socio di maggioranza» – lo stato, il governo – oggi potrebbe rivolgere le sua attenzione al settore solo perché, costretto a rimettere mano alla cassa, è per giunta sollecitato ad intervenire per il diffondersi dell’illegalità che distoglie quote imponenti di gettito. Al di là di questo, le sue responsabilità verso il settore sembrano solo «morali», il che non è molto.

Eppure BISOGNA mettere mano alle regole di cinque anni or sono, e non solo in una chiave di difesa [quella per cui si invoca il ruolo mediatore e moderatore di istituzioni sempre meno interessate ad intervenire su istanze giudicate corporative e residuali], ma soprattutto di proposta che abbia un valore riconoscibile di utilità comune.

Sul primo versante, perché quelle poche e generiche regole che da ultimo sono state date vanno riempite di contenuti, dove esse sono carenti [ne abbiamo citato sopra i punti sintetici], e «rinfrescate» rispetto alle evoluzioni della rete [le cessioni dei marchi a terzi senza tutele per le gestioni], sul secondo versante, perché c’è tutta una parte non attuata – quella dei nuovi contratti, che devono essere infine «liberati» – che non può essere solo una vaga possibilità «astratta», senza connettersi ad un progetto sullo svecchiamento dei modelli relazionali, organizzativi, del settore distributivo [ne abbiamo già parlato varie volte in relazione ai prezzi, alle rigidità della filiera, ecc.], una proposta complessiva che possa costituire un di più per il consumatore, per il sistema, oltre che per gli operatori finali della filiera, e costituire la ragione per cui politica ed istituzioni possano ancora avere un qualche interesse ad intervenire.

E tuttavia, per le organizzazioni di categoria, «attaccare l’asino al palo» – per usare una metafora dei tempi che furono, anzi alla parte alta del palo, cioè preoccuparsi del versante istituzionale e politico – non è né esaustivo né sufficiente. Qualunque azione sia indispensabile per l’appello alla politica, le organizzazioni hanno bisogno di dimostrare di avere con sé una categoria.

E siamo, detto con franchezza, in una situazione non semplice: che sono le organizzazioni oggi ad avere bisogno di una categoria, probabilmente più di quanto la categoria [che poi va pensata in un insieme di persone reali, ognuna col suo disagio, con la sua percezione della situazioni, con le sue disillusioni e, non da ultimo, con la sua, come dire, «incazzatura»] non pensi di avere ancora bisogno di una rappresentanza che sempre più difficilmente percepisce come idonea a tutelarla secondo le sue aspettative, o secondo quanto era stato promesso o assicurato.

Bisogna, dunque, anche, per riprendere la stessa metafora, «attaccare l’asino alla parte bassa del palo»; riprendere l’antico mestiere – spesso dismesso – di riandare dalla nostra gente, metterla di nuovo assieme, ascoltare. non solamente, con un utile bagno di umiltà, le sue rimostranze, ma anche coglierne i suggerimenti [oggi, probabilmente, dal duro confronto con il mercato reale il gestore ne sa più del settore di quanto non ne sappiano i suoi rappresentanti spesso – sia detto con rispetto – attardati a dover difendere quel che purtroppo non c’è più], raccontare la verità ed i dubbi senza vendere certezze e dogmi, condividere una prospettiva di cose da fare – sia per tutelare l’esistente, sia per sviluppare nuovi modelli relazionali nel settore -, rifarsi dare, infine, un mandato, mandato che non è stato affatto affidato «per sempre», ma che si rinnova solo con il rendiconto e la verifica dei risultati.

Insomma, uno sforzo immane, di lavoro, energia, cambiamento della mentalità e persino degli stili di rapporto e comunicazionali, immane – ma comune a tutta la vita associativa ed a tutte le rappresentanze, ben oltre ed al di fuori del nostro modesto recinto -, eppure non eludibile, né ulteriormente rimandabile: un «pacco» da caricarsi sulle spalle tutto intero, senza poterne scartare neanche un grammo. Ovviamente sono solo opinioni. Forse troppo esplicite perché hanno l’indelicatezza di dire che, in questi difficilissimi tempi, «il re è nudo», e bisogna aiutarlo a vestirsi, forse sono indelicate ed inopportune. Quando ci diranno di piantarla lì, di dedicarci piuttosto a «portar fuori» il cane, eviteremo di esprimerci ulteriormente. [G.M.]

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