TOTALERG AD API-IP….ANZI, ALLE BANCHE

Le ultime news sulla cessione di TotalErg Italia riportano lo stato dell’arte di una trattativa assai complessa tra il Gruppo Api IP e la joint venture TotalErg per l’acquisizione della rete distributiva. Secondo gli organi di stampa, si tratta di un’operazione il cui valore é di 680 milioni di euro, che dovrebbe essere finanziata da un pool delle maggiori banche italiane, quali Intesa SanPaolo, Unicredit, Banca Popolare di Milano, Popolare di Sondrio, Monte Paschi, Banca Popolare Emilia Romagna, istituti che vorrebbero in cambio, o pegno che dir si voglia, il 51,31 % del Gruppo.

Commentando la notizia, STAFFETTA ha pubblicato sul numero di venerdì 27 ottobre un acuto articolo dal significativo titolo La fine del “petrolio Italia, di cui pubblichiamo di seguito ampi passaggi:

«La notizia non è stata smentita: la famiglia Brachetti Peretti (o meglio la sua holding) darebbe in pegno il 51,31% di Api a un pool formato dalle maggiori banche italiane, Intesa San Paolo e Unicredit in testa, per accendere un prestito di 680 milioni e acquisire così la polpa di TotaErg, cioè la rete carburanti, forte di oltre 2.500 punti vendita. Scavalcando la Esso Italiana, al secondo posto, dopo Eni, nella classifica dei maggiori operatori petroliferi italiani con una quota di mercato di circa il 15%. Un’operazione che consentirebbe alla francese Total, una volta piazzati anche la partecipazione del 24% nella raffineria di Trecate e il deposito di Pantano di Grano, di uscire dal mercato italiano e alla Erg della famiglia Garrone di uscire completamente dal settore petrolifero.

Un evento che, se verrà confermato, darebbe un’ulteriore spallata a quello che da anni la Staffetta chiama il “petrolio Italia” così come si era venuto strutturando al culmine degli anni d’oro dell’industria petrolifera italiana, dopo la fase pionieristica che arriva fino alla seconda guerra mondiale e quella della ricostruzione postbellica. Che poggiava su tre grandi DNA: quello dell’Agip (costituita nel 1926 ai primordi dell’epoca autarchica), confluita poi nel 1953 nell’Eni al culmine dell’intervento dello Stato nell’economia; quello di tre fra le più importanti major internazionali (Esso, Shell e Mobil), incardinate in tre grandi filiali che affondavano le loro radici nel nostro Paese ai primordi del 900; quello lasciato in eredità da Nando Peretti, Edoardo Garrone e Angelo Moratti, incardinate a loro volta nell’Api e nella Erg, nate negli anni ’30, e nella Saras, che ha mosso i primi passi nel 1948.

Questo è stato grosso modo per decenni il “petrolio Italia”, di cui il fatto che una quota consistente fosse appannaggio di Esso Italiana, Mobil Oil Italiana e Shell Italiana non veniva percepita come una forzatura in quanto si trattava di società a tutti gli effetti genuinamente italiane, dotate di notevole autonomia e indipendenza rispetto alle case madri.

Di certo non semplici “terminali” di decisioni prese su modelli pensati e coniati all’estero come accade, spesso e volentieri, oggi.

Cosa resta oggi di quel complesso pilastro industriale e commerciale, segnato da un singolare rapporto tra pubblico e privato, che per tanti anni ha garantito la copertura del fabbisogno petrolifero del Paese e la sicurezza degli approvvigionamenti? E fino a che punto si può ancora chiamare “petrolio Italia”?

Eni è diventata una major e oggi nel suo “core business” il downstream petrolifero italiano è ancora un asset importante, soprattutto per quel che riguarda i biocarburanti avanzati, ma resta giocoforza in subordine rispetto a quello dell’upstream mondiale; la Esso Italiana, che oggi fa capo a ExxonMobil, si è progressivamente disfatta, sulla base del “modello grossista”, della proprietà della rete carburanti che era la seconda dopo quella dell’Agip; la Mobil Oil Italiana non c’è più dal 1990 e i suoi asset sono confluiti nella Kupit nata nel 1984 sulla radici italiane della Gulf; la Shell Italiana è praticamente sparita dagli schermi con i suoi asset oggi sparpagliati tra Eni, IP e Kupit; la Erg si è data alle rinnovabili e i suoi asset petroliferi sono finiti in parte in mani russe e in parte in condominio con la Total, quella appunto che ora dovrebbe confluire nell’Api; la Saras è ancora in mano a Gian Marco e Massimo Moratti dopo essere stata corteggiata dai russi e potrebbe finire in mani cinesi. In compenso il cosiddetto “petrolio Italia” può oggi contare, oltreché sulla Kupit, sulla Tamoil nata nel 1983 sulle radici italiane dell’Amoco e passata indenne attraverso la crisi libica e su una pluralità di operatori italiani e stranieri che controllano ormai una bella fetta della rete, dell’extra-rete e della logistica.

Nulla a che vedere comunque con il “petrolio Italia” di un tempo che a tutti gli effetti si può definire finito. Un nuovo amalgama, infiltrato tra l’altro da sacche vistose di illegalità, che si prepara ad affrontare una fase non facile di transizione verso un mercato italiano sempre meno assetato di petrolio, dove più nessuno è tentato dal prendere impegni a lungo termine, costretto sempre di più a vivere alla giornata. Con gli stessi rappresentanti sindacali che ritengono che i nuovi soggetti che si stanno sostituendo alle compagnie petrolifere non sembrano avere la capacità di dare nel tempo le stesse garanzie di relazioni industriali a cui questo settore era abituato.»

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