AUTOSTRADA: «L’É TUTTO DA RIFARE»

AUTOSTRADA: «L’É TUTTO DA RIFARE»

Chi non ricorda la famosa frase di Gino Bartali «L’è tutto sbagliato, l’è tutto da rifare»?

Il motto viene a proposito per sviluppare qualche ragionamento, possibilmente non rituale, sulla sempre più profonda crisi del comparto autostradale, sulla quale lo spettro delle posizioni va da chi ritiene di aver già fatto tutto quel che si poteva fare (Governi e Ministeri) a chi si tiene strenuamente attaccato alle posizioni (Concessionari e Compagnie) senza pensare di cambiare neppure la minima virgola come se fossero, per dirla con Lucio Dalla, gli anni in cui è «tre volte Natale», a chi, ancora, ritiene che intanto è bene aver messo il cappello sulla sedia e poi si vedrà come star seduti («nuovi entranti» per usare un termine in senso comune).

Che ci sia parecchio di «sbagliato» è un dubbio legittimo che, se non altro, dovrebbe almeno essere suggerito da pochi numeri chiave: se dal 2001 al 2015 (lasciamo stare per ora il 2016) i consumi teorici (che sono il vero indicatore da tenere presente) del traffico circolante (che aumenta tuttavia di un 8-9 %) su questa specifica rete calano di 22 punti percentuali e le vendite nella stessa rete crollano di 61 punti (ossia c’è un gap di 39 punti), o, ancora, se il calo delle vendite in tutta la rete – ordinaria ed autostrada – nello stesso intervallo di tempo del 33 %, cala nella rete ordinaria del 29 % e, come già detto, del 61 % nella rete autostradale (ossia di più del doppio), qualcosa di incongruo, di problematico, o di sbagliato che sia, deve pur esserci.

Premesso che già prima della crisi economica c’era un disallineamento tra dinamica tra vendite e consumi teorici connessi al traffico della rete autostradale (in consistente parte dovuta all’«effetto TIR», ossia all’incidenza del divario prezzi dai Paesi confinanti, della mai attuata armonizzazione delle accise sul gasolio «pesante», un dato strutturale che permane intonso e persino aggravato dopo gli aumenti di accisa di fine 2011), certamente la crisi economica nella sua fase più cruenta ha abbattuto il traffico (di dieci punti percentuali complessivi che salgono a diciassette per il traffico pesante), ma in misura ben maggiore sono calati i consumi teorici ad esso collegati (di trentaquattro punti percentuali) e le vendite (di quarantasette punti percentuali) nel periodo 2008-2013, mentre nel biennio 2014-2015 – nonostante una ripresa di circa cinque-sei punti tanto del traffico (anche quello pesante) quanto dei consumi teorici – le vendite hanno perso ancora circa diciassette punti.

Queste diverse velocità nelle dinamiche in discesa, piuttosto che le dinamiche di segno opposto tra vendite di carburanti (ma potremmo tranquillamente aggiungere anche degli altri beni e servizi esitati sulla rete) e fondamentali (traffico e consumi teorici) accendono più di una spia di allarme.

Se è difficile invertire fattori che ormai sono strutturali, quali il gap delle imposte molto più elevate (fattore squisitamente nazionale), la disarmonizzazione delle accise sul gasolio «pesante» (fattore comunitario europeo, probabilmente non più attuale in vista del «pensionamento» del petrolio, eppure reale per il mercato in quanto pesantemente falsante i fattori della competitività delle imprese del trasporto), difficile difendersi dai fattori congiunturali (le crisi economiche «a U» come quella che non ci sta ancora alle spalle), è pur vero che ciò che determina sfasature e dinamiche che non «fanno scopa» con i fondamentali va ricercato altrove.

L’«altrove» è il fatto che un mercato, quello autostradale, che è stato eminentemente concepito da Concessionari, Compagnie petrolifere, Grande ristorazione, come «strutturalmente captive», che significa «privo di concorrenza», «chiuso» – proprio per la sua caratteristica di rendere «captive» l’utente di tale rete, ossia «prigioniero», in quanto incanalato in essa, dell’assenza di alternative al livello del prezzo dei beni e dei servizi ivi praticato (la logica, del resto, che ha ispirato la durevole aspettativa, ed il conseguente abuso, nel domandare e nell’offrire, royalty esorbitanti sui prodotti oil e sui beni e servizi beverage & food, un mercato in cui i pedaggi crescono di tre volte il tasso di inflazione, è stato sforato da un’aliquota crescente di consumatori che si è progressivamente sfilata, «affrancata» – complice certo anzitutto la crisi economica -, e che si è rivolta per gli stessi beni e servizi ad un mercato/canale esterno meno «captive», fenomeno che si nota con maggiore intensità a partire dall’anno peggiore, il 2012.

Né è facile dimenticarsi – tra l’altro – degli «scontoni d’estate» di quel fatidico 2012: con quella operazione, dalla quale venne esclusa esattamente la rete autostradale, non solo, come si è già avuto modo di dire anche recentemente, si dette un calcio all’intera credibilità del sistema dei prezzi dei carburanti, ma si fece il peggiore spot di pubblicità comparativa «contro» l’autostrada. Non a caso, infatti, quell’anno la rete delle AdS perse qualcosa come 23 punti percentuali di vendite sull’anno precedente (un dato da ANISA approssimato con una precisione del 98 % su Figisc Anisa News n. 37 del 03.09.2012, previsione perdita 670 milioni di litri, perdita reale 681), e se il contributo a tale risultato fu per due terzi la crisi, con il calo del traffico e dei consumi, un buon terzo è addebitabile conti alla mano alla iniziativa commerciale dei 20 cent di sconto dei week end estivi.

Né va dimenticato il crescente peso nel tempo delle politiche di prezzo influenzate da quei fattori, tipici di questo ambiente «captive», che non si possono certamente definire fondamentali «di mercato». A proposito dell’abuso, come detto poco più sopra, «nel domandare e nell’offrire royalty esorbitanti» non servirà ricordare la corsa all’offerta sulla A22 fino a 10 e oltre cent/litro nel 2006, basterà fare riferimento al fatto che, ad esempio, il peso delle royalty ha inciso mediamente per il 45 % di tutti i costi della gestione caratteristica retail del segmento autostradale di una primaria azienda nazionale, dicasi il 45 %. Analoghe considerazioni si possono fare sui servizi non oil, con un altro 45 %, questa volta di royalty, che venne offerto, e più che ben accetto, sempre sulla A22, per vendere panetti e snack (salvo, a comprova dell’arbitrarietà di questo meccanismo parassitario, fare sconti non lontanissimi dal 50 % quando c’era il timore, in tempi più recenti, di vedere andare deserte le gare!).

Sono queste «rendite» ai concessionari – peraltro non connesse ad alcun corrispettivo investimento nei settori da cui venivano prelevate – che hanno falsato nel tempo e progressivamente i prezzi di beni e servizi nella rete autostradale, dinamiche «non di mercato», appunto, e quindi non flessibili rispetto alla crisi economica, al calo di consumi e vendite, e per aggiunta sommate all’evoluzione del mercato della distribuzione carburanti circostante, con il florilegio di operatori indipendenti, di un doppio accesso ai prodotti ed ai loro prezzi di cessione ed indi di vendita.

Si aggiungano pure, negli scorci temporali più recenti, da un lato, ossia quello delle compagnie petrolifere, la declinazione di politiche di pricing miranti ad approfondire oltre misura il solco del prezzo tra modalità di servizio (30 cent/litro di differenza tra un servito in autostrada ed un self in pompa bianca sulla rete ordinaria circostante, tanto per citare esempi estremi, sono difficilmente finalizzabili a difendere l’appeal della rete), dall’altro, ossia quello dei gestori, – come sottoprodotto finale delle crescenti conflittualità interne al segmento – la pressione sul prezzo per tentare di reagire alla rovina economica in cui sono stati cacciati dalle condotte aziendali dell’industria petrolifera, dalla crisi del comparto e via dicendo, con un effetto, in ambedue i casi, di cane che si morde la coda.

È appena il caso di richiamare – il problema è assolutamente datato e comparativamente palese: basta riguardare, in negativo, la rete ordinaria, oppure, in positivo, altre realtà di segmento in altri Paesi (anche se non immuni da alcuni «vizi» in comune col nostro) – la tematica rete: la nostra rete distributiva in autostrada è sovradimensionata, ad esempio, del 50 % rispetto a quella francese, è da anni palese che un numero crescente di AdS sta scendendo in picchiata sotto le soglie di minima sostenibilità economica. Ciò non pertanto, gli interventi fin qui cantierati – dalle «linee guida» di Passera al decreto interministeriale «balneare» del 2015 – non hanno minimamente affrontato la questione ristrutturazione (tanto che, per buttarla in battuta, mentre si aspettano ancora le così dette «interpretazioni autentiche» di alcuni contenuti del decreto 2015, quel «piano di ristrutturazione» è già largamente inadeguato alla bisogna, insomma da rottamare).

Tra chiusure da attuare e nuove aperture programmate, infatti, il bilancio della «ristrutturazione» porterebbe ad una riduzione del 2 % dei punti vendita. Dicasi 2 % contro il 50 % di cui si diceva, sia pure a titolo di paragone, qualche riga più su…..

Una parola, infine, sui «nuovi entranti», ai quali è stato «regalato» un buon quarto della rete (o che, capovolgendo concetto, hanno fatto il «regalo» di assicurare un qualche servizio sulla rete mentre le compagnie petrolifere si davano alla fuga…, si vedrà): difficile pensare, nel prosieguo del tempo, a qualcosa di poco più che precario, a fronte allo stato del comparto, per quanto riguarda quei servizi che non fanno parte del loro core business. Già se ne intravedono alcune avvisaglie….

Se quanto sopra esposto è lo stato dell’arte – e francamente è un po’ difficile disconoscerlo – risulta difficile pensare che i problemi siano ancora i bandi o le procedure di assegnazione o le infinite diatribe sui ricorsi ed i contenziosi, come si trattasse di gestire una situazione «normale», malgrado di «normale» non ci sia nulla.

Forse, e senza forse, è da cambiare proprio registro.

Che in questa specie di dissestata «riserva indiana» ci sia da introdurre un po’ di «mercato» vero, non quello «dopato» o «finto» che dir si voglia, appare ancora l’unica ragionevole speranza.

A partire sostanzialmente da due cose: ristrutturazione e royalty.

Della prima si è già detto, né serve rincarare: i numeri di cui sopra ci dicono della sproporzione esistente tra il pessimo e l’ottimo degli obiettivi, ma siccome spesso, come si suole dire, l’ottimo è nemico del buono, servirebbe almeno, probabilmente, una via di mezzo (che non è certo l’attuale piano di ristrutturazione); ma l’individuazione del così detto livello di servizio accettabile non è cosa che debba decidere solo il concessionario, ma il mercato. A meno che, ancor prima del «pensionamento» del petrolio, non ci si acconci a voler disporre di una pletorica rete di bar, «già» o «fu» distributori di benzina.

Sulla seconda il ragionamento è più complesso.

Si tratta, né più né meno, che di «riposizionare» un mercato «captive» (ormai vulnerato in questa sua caratteristica) rispetto alla competitività del mercato oil e non oil, se si vuole dare (o no) ancora un minimo di prospettiva di sopravvivenza al segmento autostradale, cioè, in parole semplici, riconsiderare le condizioni dell’offerta di beni e servizi in termini di prezzi. Oppure se lasciare tutto come sta e giace, cercando solo di cavarne una residua rendita che tuttavia contribuisce a sua volta sempre più alla consunzione del comparto.

Ciò significa, ad esempio, che il peso delle royalty, fattore estraneo ai fondamentali di mercato dei beni e servizi esitati, non può essere ancora declinato nei termini già visti nel recente passato (se c’è meno traffico allora si concede una riduzione proporzionale delle royalty, cosa che sta passando di attualità visti i moderati segni di ripresa del traffico stesso). Significa che, mentre il settore è nella crisi più nera, mentre vale la pena di pensare ad un progetto di riposizionamento delle attività di servizio presenti sulla rete, lo spazio per le rendite avulse dagli investimenti (a meno che non sia il concessionario stesso ad esercitare i servizi direttamente) non può, né deve, esserci in quanto falsa e pregiudica la corretta competitività di beni e servizi.

Con in più un’altra tematica non banale che riguarda il ruolo delle istituzioni: una cosa è tollerare che il regime di concessione consenta di influenzare e circoscrivere un mercato con l’imposizione a soggetti terzi di rendite di posizione, altra cosa è ottemperare a principi ed obblighi comunitari, in base ai quali lo stato nazionale deve assicurare «condizioni di pari opportunità ed il corretto ed uniforme funzionamento del mercato, nonché di assicurare ai consumatori finali un livello minimo ed uniforme di condizioni di accessibilità all’acquisto di prodotti e servizi sul territorio nazionale», il che è palesemente contraddetto dalle caratteristiche specifiche del mercato dei beni e dei servizi in autostrada, pesantemente condizionato e minato da fattori diversi (peraltro in uno straordinario meccanismo per cui il concessionario assume, impropriamente, poteri del concedente istituzionale) da quelli del mercato «ordinario» che si riverberano sul prezzo di tutte le prestazioni diverse dal semplice pedaggio dietro diritto di transito.

Che, quindi, sulla crisi autostradale si debba cambiare sia la marcia che la direzione – riconoscendo che aveva ragione Bartali -, sembra oltre che necessario ed opportuno, anche legittimo.

Infine, alcune brevi considerazioni sui rapporti interni tra gestori e compagnie appare opportuna, avendo in precedenza accennato alla «conflittualità interna», diventata essa stessa fattore, ancorché solo parzialmente, di destabilizzazione del comparto.

Vale solo la pena di ricordare come fino a quando esisteva un clima di corrette relazioni (sostanziate in accordi di tipo economico e di inquadramento contrattuale) – e ormai è passato molto tempo da che ciò non è più -, le gestioni non hanno mai fatto ricorso alla leva del prezzo.

Vale altresì la pena di ricordare, e solo di sfuggita, come nel tempo la scelta di non negoziare altri accordi, le politiche di pricing, gli accordi tra aziende e concessionari, il manovrare la leva di aumentare i prezzi nella maggioranza delle AdS per poterli abbassare laddove esistevano condizioni particolari di bando, ecc., hanno generato una diffusa discriminazione nelle condizioni di esercizio dell’impresa dell’operatore finale, un diffuso disagio, che, sotto i colpi della crisi economica, della diminuzione delle vendite, della vanificazione dei margini, di tutte le condizioni di mercato sopra ampiamente descritte, si sono tramutati in un vero e proprio default tecnico della categoria.

E pur avendo salvaguardato – non senza lacune considerevoli e tuttora irrisolte – anche in occasione dell’ultimo decreto il principio della «continuità gestionale» rispetto all’avvicendamento dei bandi, e tenendo comunque presente che questa «continuità gestionale» è l’ultima in qualche modo garantita, vale l’analogia, in altre sedi già ricordata, con lo speculare principio della «centralità del gestore» (sia pure ciascuna nelle sue peculiarità) nella rete ordinaria: se le condizioni operative, contrattuali, commerciali, per «restare al centro» ovvero per «continuare a gestire» non sono collegate ad una aspettativa possibile di sostenibilità economica dell’attività di impresa, si tratta pur sempre di concetti privi di contenuti reali.

Ciò apre (e chiude) il ragionamento finale su un tema che è stato oggetto di discussione in questi mesi: la sostituzione o meno degli strumenti contrattuali – dopo anni, come ricordato, di disinteresse delle controparti aziendali sugli accordi -, resasi improvvisamente urgente per ragioni di, diciamo così, «regolarizzazione» delle condizioni di bando contrattate unilateralmente con i concessionari.

Su cui vi sono da dire pochissime cose, veramente pochissime.

Non ci appassionano i dibattiti nominalistici, cioè quelli sul «nome» del contratto, neppure se si trattasse di chiamarlo contratto «della felicità» o «dell’infelicità»: ciò che interessa, pur dopo lunghi anni di molte enunciazioni roboanti su «diritti» astratti, è un sano ritorno al principio che giustifichi il fatto di gestire una impresa, sia pure minima come quella del gestore, ossia il ritorno economico e la sostenibilità dei costi.

E su questo possibile cambiamento, sul quale non esiste alcun pregiudizio se non quello enunciato nella riga sopra, l’altro concetto correlato è quello della flessibilità: impregiudicata la durata, da far coincidere con quella della concessione, gli aspetti economici e l’inquadramento devono essere, per ragioni a tutti evidenti, reversibili in relazione all’andamento del mercato.

In una situazione in cui nessuno sembra far «sistema» con nessuno, nel bel mezzo, anzi nel bel fondo, di una crisi conclamata e strutturale, in cui per giunta non si intravvede alcun progetto di riposizionamento del comparto – su cui esiste, invece, se questo progetto ci fosse, la disponibilità più ampia a condividerne i percorsi, inclusi quelli di «normalizzazione» di questo mercato nei termini che si sono illustrati ampiamente sopra -, non sembra ragionevole chiedere al gestore di impegnarsi in schemi rigidi, che per di più gli tolgano definitivamente e senza appiglio alcuno la possibilità di riparare almeno in piccola parte i gravissimi danni che gli sono stati inferti. E anche questo è un po’ di «mercato», che non può essere sempre solo per qualcuno, e per qualcun altro mai.

[Stefano Cantarelli – G. M.]

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