MERCATO, RETE, CONTRATTI, SINDACATO & VIA DICENDO…

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AVVERTENZA: Il seguente contributo, «ospitato» in questo numero, riflette esclusivamente l’opinione del suo estensore e non necessariamente, né in tutto né in parte, o proprio per nulla affatto, quella di FIGISC.

<<L’articolo di Ulisse-Riccardo Piunti sul «pensionamento» del comodato offre lo spunto per una riflessione a tutto campo – riflessione non richiesta, e quindi discutibile, azzardata, ecc. – sul mercato, la rete, i contratti, il ruolo del sindacato, ecc.

Intanto – non a caso, forse -. l’uscita sul pensionamento del comodato esce nel momento in cui si avvia un confronto, ancora alle prime battute, tra Unione Petrolifera e le Organizzazioni dei gestori sul contratto di commissione. Poi, per capire il senso delle aspettative da quella parte del tavolo, sembra sufficiente scorrere la parte dell’articolo in cui si parla di tutte le cose che «la Oil Company potrebbe….ma non può»…proprio a causa della permanenza del comodato. Aggiungiamoci anche le notizie sulla «disponibilità di prodotti petroliferi in area Adriatico a prezzi dimeno 15”», a chiosa delle quali Figisc Anisa News rilevava che «i gestori delle major devono normalmente acquistare in regime di esclusiva prodotto a Platt’s da +9,8 a +11,4 cent/litro in modalità self e da +17,2 a +18,5 in modalità servito [valori medi del 2016]: Platt’s meno 15 significa un delta di +25/26 cent/litro per il self e di +32/33 per il servito, e prima ancora di marginare da parte del gestore un solo millesimo!», e c’è sufficiente carne al fuoco.

Mercato

Certo esiste l’illegalità diffusa e rilevante che intossica il mercato, creando un «effetto domino» che si esprime essenzialmente nella devastazione della credibilità dei rapporti e del prezzo, in cui «…rapporti di fornitura decennali [sono] interrotti improvvisamente, spesso per inseguire il millesimo di differenza, al costo di compromettersi con operatori non qualificati, nel migliore dei casi. Tanto che, a parte la distruzione di valore, quello che sembra più pesare sul settore è lo sfilacciarsi della fiducia reciproca [citazione da Staffetta Petrolifera]». ma illegalità a parte il mercato «legale» sarebbe forse «lineare»?

La risposta è no, non è affatto «lineare».

Processi connessi ad una imperfetta integrazione e, all’opposto, ad una micidiale disgregazione geopolitica, oversupply dei prodotti, fino ai traffici di entità criminali [ISIS], assenza di politiche protezionistiche hanno «bucato» i mercati regionali del mondo, né ad un tanto si può facilmente porre rimedio con la reintroduzione di barriere che, se possono avere ancora un senso di fronte all’invasione del mercato da parte di produttori o che hanno vantaggi competitivi sul piano dei fattori di produzione e/o dei vincoli ambientali, sono semplicemente improponibili, ad esempio, per quel che si movimenta dentro i confini fisici dell’Unione Europea [e, per inciso, la medesima dovrebbe decidere all’unanimità qualunque di queste misure esterne od interne che siano]. Per non parlare poi, calandosi sul piano strettamente locale ed alla fine del circuito distributivo, di misure di sorveglianza del prezzo finale [chi mai scriverà in una norma, ad esempio, che «il prezzo non può essere più basso di ____ », specie laddove il politically correct è fortemente antagonista dei combustibili fossili e laddove si tende ad abusare del prelievo fiscale sui carburanti?].

Nè questa «non linearità» del mercato è qualcosa di congiunturale e reversibile.

Scendendo al mercato locale, anche nel nostro paese le Oil Company non sono più le monopoliste uniche del mercato. In un contesto cambiato, esse sono impegnate in un gioco sempre più complesso in tutte le direzioni, anche apparentemente contradditorie, praticabili, ossia si riservano tutte le flessibilità del momento: a) controllare fin dove possibile le pressioni competitive nel canale extrarete dove esiste il più alto grado di concorrenza; b) gestire, con un compulsivo controllo del prezzo, una problematica concorrenza interdipendente tra rete ed extrarete; c) terziarizzare, se possibile con il massimo profitto, in parte o in tutto gli asset di rete – peraltro interamente ammortizzati per le componenti materiali e fortemente svalutati in termini di avviamento a causa della perdita di ingenti quote di mercato -, con tecniche o di collocazione in blocco o di «spacchettamento», d) giocare la carta della progressiva automazione della rete quale mezzo di controllo esclusivo, o comunque succedaneo, della competizione dei prezzi per il mantenimento delle quote di mercato in rete, e via discorrendo…. Tranne qualche eccezione [ad esempio, l’ancor parziale, ma significativo, modello «grossista»], tutto lo spettacolo del giocoliere rimane in moto sebbene il moto delle palle da far ruotare diventi sempre maggiormente instabile. Gli esiti della vicenda sono decisamente incerti, ma è plausibile che, fra i possibili, il modello di terziarizzazione progressiva finisca nel tempo per affermarsi come prevalente, ancorché non esclusivo. Non sarà facile perseverare all’infinito, senza gravi errori, nel controllo compulsivo del prezzo finale e/o del mantenimento a tutti i costi della rete fisica in una ormai strutturale e prolungata fase di marginalità declinanti.

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[Un’evoluzione auspicabile – ma solo una, fra le tante possibili, per quanto discutibile ed azzardata e non certo solo univoca (non esiste un modello unico) -, potrebbe essere rappresentata da un progressivo riassestamento verso un modello misto rivenditori/ immobiliaristi: locazione d’azienda dei punti vendita, conversione diffusa dei gestori [nel termine più ampio di tale definizione e non in quello restrittivo in cui essa è codificata oggi] in tenants, fornitura in esclusiva del prodotto a prezzo di extrarete.

Maggiormente funzionale ad un mercato in progressiva evoluzione post monopolista, nonché ad un marcato contenimento dei costi di sistema e ad un parziale allentamento delle loro influenza sul prezzo finale alla rete, senza il difetto di dover riprodurre in scala minore [lo «spacchettamento»] il vecchio modello, comporta tuttavia il limite, rispetto alla vocazione «totalitarista» di una Oil Company, che la perdita del controllo del prezzo in rete aumenti la dipendenza dal prezzo in extrarete, in cui sono più forti le pressioni competitive, e che, alla lunga, i prodotti e la rete diventino «generalisti», anonimi, ed i brand petroliferi un logo sulla fattura di un fornitore e basta, insomma, una versione ridimensionata del ruolo avuto finora specie in Italia, ma per nulla incompatibile con il ruolo strategico (che non è solo «totalitarista») di una Oil Company. Ma è solo una ipotesi.]

Non è semplice capire come andrà: la complessità della situazione è tale che tutto è in movimento e nel massimo della «confusione flessibile», il che suggerisce – soprattutto alla parte della filiera che rappresenta i gestori – come sia poco saggio pensare a soluzioni uniche che possano, ancora una volta, sembrare semplici e soprattutto durevoli nel tempo, solo perché qualche segnale sembra suggerire la speranza che le Oil Company, o alcune di esse, stiano scegliendo una strada precisa.

Rete

Così come non è semplice ragionare su un sistema di rete – che, sia chiaro, non è questione distinta dal mercato -, magari non solo limitandosi a riproporre l’abusata questione della «quantità» di impianti. Di fatto, su tale argomento – ristrutturazione numerica incompiuta che si trascina sin dal 1978 [più di una generazione] a parte – anche i modelli che si sono inseguiti finora sono stati modelli più «ideologici» che di «flexability». Il presupposto, rivelatosi a data di scadenza, della predeterminazione di un mercato «perfetto» e non suscettibile di grandi cambiamenti [tranne forse una partita a due, tra compagnie e grande distribuzione, rivelatasi tutto sommato limitata sul piano dei numeri e risolta con un appeasement pari e patta più sul piano di accordi sul prezzo di fornitura del prodotto che altro] ha semmai accentuato il modello di rete «oilcentrico» di cui ci parla Ulisse-Riccardo Piunti [se ne è parlato ampiamente nel n. 17/2016 di Figisc Anisa News], che poggia sul concetto del controllo del mercato e del prezzo e di tutte le articolazioni della marginalità lungo la filiera distributiva, gestori – nel termine più stretto della definizione – compresi…. In questo modo si è sradicata parte della rete, ritenuta marginale ed antimoderna, collegata ad attività di servizi «native» [cioè autonome dal rapporto con il fornitore oil] che costituivano profittabilità non oil prevalenti agli operatori finali [si chiamino come si vuole…], non si è implementato un non oil significativo nella rete portante, che non fosse basato su almeno due fraintendimenti: a) da una parte che bastasse sovrapporre al punto vendita, a canoni speculativi, non già un know how [e non solo un format] del non oil, quanto una serie di contratti con fornitori imposti, dimostrando, da un lato, che essere Oil Company non significa affatto essere, ad esempio, automaticamente esperti nel food and beverage o altro, b) dall’altro lato, che si possa automaticamente diventare, per diritto, da benzinai anche baristi esperti, sempre per fare un esempio.

A queste cose, la «rete perfetta nel mercato perfetto», hanno creduto tutti, ivi comprese le Organizzazioni di categoria che hanno inteso tale modello di rete [ancorché ristrutturata sul piano dei numeri per riversare erogati marginali a rimpolpare quelli della rete «portante»] come funzionale al complesso di fattori «attribuzione del prezzo finale al gestore», più «margine pro-litro erogato» più «contratto di comodato e fornitura», in una «oilcentricità» tanto intrinseca quanto inflessibile [= non flessibile]. E la dipendenza esclusiva dall’oil, per inciso, non sembra essere stata assolutamente scalfita dall’irrompere sulla scena delle «pompe bianche», anch’esse ed ancor più, «benzinocentriche», con il vantaggio di avere accesso ad un mercato aperto e di avere flessibilità sui costi di scala. Per non parlare della notevole capriola concettuale delle compagnie petrolifere che, dopo la stagione della «rete portante», sono passate alla santificazione del ghost…che più «oilcentrico» di così non si può. E comunque, tutto ciò ha solo accentuato la dipendenza di tutti – compagnie e gestori – dalla sola marginalità derivante dall’oil, proprio in una fase in cui questa cominciava a declinare ed infine è definitivamente declinata.

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Per cui, tutto sommato e per dirla tutta, diventa accessorio che il decreto concorrenza [che contiene la razionalizzazione della rete, già da tempo faticosamente concertata dal settore] sia approvato «entro l’estate» o, come infine è appurato, «dopo le ferie». Forse tutta la cosa è non solo certamente vecchia temporalmente, ma perfino scarsamente attuale da un punto di vista concettuale ed in prospettiva futura. Ed infine, ci si passi una boutade paradossale: più che di «meno impianti», forse si tratta anche di «meno gestori», con ciò intendendo esattamente meno imprese che debbano far dipendere la propria sostenibilità economica da un solo impianto.

Sindacato

E, riallacciandoci con il passaggio sopra riportato parlando del nesso rete-prezzo al gestore-margine pro-litro erogato-comodato, qualcosa – sempre non richiesta, s’intende! – bisognerà pur dire anche sul ruolo, certo difficile, delle rappresentanze di categoria.

La speranza di avere raggiunto, con grandissima fatica, alcune «certezze sindacali» ha per molti anni confuso l’esatta percezione dell’importanza del mercato, della sua influenza sul prezzo in generale e delle relazioni all’interno della filiera in particolare. Per molto tempo, infatti, si è coltivata e diffusa la convinzione che si potesse contrattare, di tempo in tempo, un margine tutto sommato accettabile e che la ristrutturazione della rete avrebbe consentito di mantenere gli erogati redistribuendo più razionalmente il mercato: in sintesi, si è così congelato, anche mentalmente, il problema della competitività naturale nel mercato [come in qualunque attività commerciale], in un sistema quasi «garantito» dal tessuto della tutela sindacale che prevedeva un trattamento eguale per tutti, un margine identico, un contratto identico, ecc…[come la divisa unica dei cinesi ai tempi del Grande Timoniere]. Ciò avrebbe mantenuto la solidarietà, creato lo «spirito di corpo», rafforzato la necessità stessa e l’autorevolezza del sindacato.

É bastato che il «mercato» virasse a) prima verso una maggiore concorrenza al ribasso, e non al rialzo, dei prezzi, b) anche attraverso la differenziazione delle modalità di servizio, e, c) poi, che si affacciassero gradatamente sulla rete soggetti nuovi con flessibilità competitiva nelle condizioni di fornitura, per far cedere le fondamenta, i muri e la copertura e sbriciolare la malta di quell’edificio, tanto «perfetto» quanto fragile nei suoi basilari presupposti: l’idea di un mercato immutabile e perfettamente «spartito» tra i suoi attori.

Con una serie di ricadute pesantissime:

a) aprendo ampi varchi alla contrattualistica diversa da quella «codificata», creando un puzzle di figure non tutelate, perché fuori dal quadro del sistema ufficiale e quindi, sottraendo parte della base rappresentabile [chi ha la sfortuna di vedersi imporre contratti «diversi» è anche fuori dalla tutela sindacale che si esercita solo su un modello standard, con una negazione «ideologica», contro ogni evidenza, di ogni altra variabile;

b) creando un divario insostenibile tra il durissimo «mercato reale» dei risultati economici materiali ed il «mercato virtuale» dei diritti e delle certezze immateriali cui ai gestori era stato detto di credere e confidare, togliendo ovviamente gran parte di credibilità a chi non è in grado di modificare un mondo così diverso da quello a lungo propagandato, ed allargando il solco tra ciò che si crede /pretende di rappresentare e ciò che si riesce a tutelare.

Nello stesso tempo, anche il rapporto con il sistema, settore, aziende, è virato per forza verso una specie di schizofrenia, alternando periodici richiami al «ricompattamento del settore» a, nel recente passato, forti atteggiamenti di rottura [le «liberazioni», le «rotture della filiera»] che esprimevano, come le minacce di divorzio al coniuge infedele, il rimpianto per quel mercato perfetto [rigorosamente monopolistico dei petrolieri] che non c’è più.

Così il gestore, «titolare del prezzo» e «garantito dal margine pro-litro» – lungi dal poter disporre di risorse per poter svolgere un ruolo parzialmente autonomo nella rete -, è stato introdotto a forza nel mercato, i cui fondamentali sono comunque indipendenti da esso [doppio canale rete – extrarete che alimenta la concorrenza in rete, prezzo di cessione del prodotto e prezzo massimo, con solo la risibile autonomia teorica di un infinitesimale overpricing impraticabile], sempre con quegli strumenti contrattuali, prima per tentare la difesa degli erogati con parte del suo margine nella lunga stagione dell’iperself [tanto per collegarci ad un concetto ampiamente inteso], e/o, comunque sotto il timore della propria  espulsione dal sistema in caso di automazione totale [la «macchinetta» del ghost] e, più recentemente, ad ingaggiare la difficile missione di realizzare – a suo rischio e con propri fattori di impresa – col prezzo del servito quella marginalità che serve alle Oil Company per rendere competitivo il prezzo del self nei confronti di quella stessa rete indipendente che esse medesime riforniscono.

E da un po’ di tempo, dopo che il gestore è stato integralmente «spolpato», ed il rischio è anche quello della solvibilità, si apre la disponibilità delle compagnie a concludere accordi con il vecchio contratto, e perfino a discutere di nuovi strumenti contrattuali, ma permanendo sempre intatta l’ossessione del controllo del prezzo in tutte le sue fasi, permanendo sempre sospesa ed in bella vista la spada di Damocle dell’espulsione dalla rete [chi vincerà in questo o quel marchio tra i «falchi» del ghost e le «colombe» degli accordi con i gestori? è di questo che si ragiona per fare gli accordi….].

Non interessa a chi scrive questo articolo sottolineare come l’appena avviato confronto sul contratto di commissione rischia di essere letto con significati molto diversi tra le parti: un modo per sgravare il gestore sul versante sindacale, una vittoria del controllo sul versante aziendale. Ma invece interessa – ed è solo un’opinione discutibile o persino errata, come tutte le altre qui esposte – sottolineare l’assoluta necessità di non considerare affatto questa come la seconda [dopo il comodato storico] soluzione durevole, né soprattutto l’unica percorribile, pena l’incartarsi in situazioni già viste e sopra abbondantemente descritte.

Le questioni sembrano altre.

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Se le Oil Company hanno per scopo quello di continuare a garantirsi tutte le libertà che sono loro suggerite dalla difficoltà di un mercato del tutto mutato – ivi comprese le contraddizioni ed i giochi sempre più difficili sopra ricordati -, anche il sindacato non può prescindere dal ragionare con la flessibilità che serve alla categoria per continuare a stare nel settore in un mercato del tutto mutato [ed in questo senso, un gestore, nel senso «largo» del termine, nel senso di un’impresa che svolge servizi di filiera o che fa vera e propria distribuzione, sarà sempre necessario anche nelle ipotesi più spinte di automazione della rete].

Il suo scopo non può più essere quello di restringere le figure da rappresentare semplificando ancora le ipotesi contrattuali cui cercare di dare tutela, ma semmai ampliare lo spettro delle possibilità di fare impresa, allargando nel contempo la sua rappresentanza: mestiere certo difficile e molto meno semplice che tutelare una sola variabile standardizzata, ma con una sola carta non si è più nelle condizioni di «vincere facile», anzi, sicuramente di «perdere facile», e ciò anche indipendentemente dal gioco delle controparti.

Esistono le leggi sulle tipologie contrattuali diverse, magari generiche – ma sono state lasciate al palo! -, e non sono brutte leggi perché indicano alcuni percorsi possibili.

Paradossalmente, invece di lavorare in quella direzione, si è più confidato in quella parte delle leggi che sono, invece, semplici petizioni astratte di «buonismo» [le «eque condizioni», ad esempio]. Per dirla tutta – ma non è per forza una bestemmia in chiesa! -, queste petizioni di «principi buonisti» [che vengono poi declinate negli accordi con una molto aleatoria possibilità di essere invocate per decidere se vi è un abuso e un danno, quasi che questo non debba proprio essere mestiere per avvocati] servono senz’altro alle parti in causa [Oil Company e Rappresentanze di categoria] per svolgere il loro gioco di ruolo: da un lato, di eluderli in quanto generici, dall’altro, alzare la voce quando vengono elusi; ma premesso che sono funzionali al ruolo delle parti, consentono anche al gestore di essere realmente tutelato?

Insomma, bisognerebbe andare in tutte le direzioni sui contratti, evitando la «camicia unica», ricordando che esiste il mercato [che non è cosa che deve «piacere», ma che è], che le ragioni di fare impresa sempre più difficilmente stanno nel pro-litro quando non ci sono né erogati né margini, ma in una riorganizzazione del ruolo dell’impresa di servizi, o di distribuzione, diffusa e capillare, e che tutto questo, volenti o nolenti, è necessario ad una flessibilità per tutti e non solo per chi ce l’ha già e che tale flessibilità è un valore aggiunto al mercato.

Non sarebbe sbagliato tornare, in questa fase così difficile, ai gestori: uscire dal «cerchio magico» ed esclusivo del rapporto con le aziende, cui le Organizzazioni di categoria sono costrette al di là forse della loro volontà, sparigliare la ritualità stucchevole dei consueti tatticismi bizantini per cui si sa sempre in partenza a) che prima di qualunque accordo passerà troppo tempo perché le cose definite siano ancora attuali o durevoli; b) che cosa dirà l’una e l’altra parte, con quale sequenza, con quali mosse successive sulla scacchiera; c) che il dibattito rischia di essere costretto sempre dentro le logiche imposte dalla parte più potente contrattualmente; chiedere alla nostra gente – che è migliore e più attenta di quanto noi stessi non pensiamo, forse perché troppo convinti di essere la classica «avanguardia» che ne sa di più degli interessi che rappresenta – che strada si debba imboccare di fronte alla necessità di cambiare gli strumenti che finora si davano per certi ed efficaci. Non sarebbe proprio sbagliato.

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E se quanto sopra detto è una opinione – magari disturbante, ma espressa non «contro», ma «da dentro» e con totale assunzione di responsabilità per la piccola parte avuta dentro questo mondo -, sulle Rappresentanze sindacali in genere, senza personalizzazioni su questa o quella sigla [e, comunque, ognuno ne dia la lettura che vuole], una ulteriore opinione «fuori sacco» – anche questa non richiesta e magari un pizzico inopportuna, ma forse matura al punto che serve che uno qualunque lo dica, e meno autorevole è, meglio è – riguarda, invece, una marginale questione «interna» ed è sostanzialmente quella di mettere una pezza ad una «vecchia piaga». Ci si riferisce ad una storia di alcuni anni fa, quando un pezzo di rappresentanza di categoria in Veneto decise di «far da sola», pur rimanendo dentro la casa madre di Confcommercio, una storia che è rimasta in standby fino ai giorni nostri, a seconda delle fasi temporali tra insofferenza ed indifferenza. Ora, a distanza di anni, non si tratta di cercare smentite, conferme, abiure, vittorie o sconfitte postume od altro del genere, perché ciò non condurrebbe probabilmente a nulla se non a rinfocolare vecchi distinguo. Si tratta di rimarginare col «buon senso comune», cercando, non di inseguire assimilazioni forzose, ma di valorizzare pluralità di pensiero, sforzandosi di trovare punti di convergenza, laddove possibili, e comunque anche parziali, su cose concrete, scoprendo che sono più quelle che possono far fare sinergia che quelle che dividono, e dando per scontato che entrambe le parti abbiano a cuore – e comunque abbiano per dovere! – al di là di ogni altra cosa la categoria. Tendersi la mano non dovrebbe essere poi una mission impossible. Le temperature medie terrestri aumentano, anche i ghiacciai si sgelano.>>

[Giorgio Moretti]

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