Interrogato in aula su quali provvedimenti il Governo intenda assumere nei confronti dei rapporti commerciali e contrattuali della categoria dei…
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TUTTI CONTRO L’AUMENTO DELLE ACCISE— 12 Febbraio 2017Dopo il comunicato stampa di FAIB, FEGICA e FIGISC [si veda notizia su Figisc Anisa News N. 3 del 05.02.2017], in cui si invitava il Governo ad «evitare ulteriori grossolani interventi su un settore dei consumi che negli ultimi cinque anni ha già pagato oltre 25 miliardi di euro in più per effetto degli aumenti di accisa di cinque anni fa» e che è «stata l’elevata pressione fiscale – per la stessa ammissione del Governo – a contribuire alla diffusione di quei fenomeni di illegalità nel settore petrolifero che l’inchiesta di Venezia ha nei giorni scorsi portato all’attenzione dei media e che, nonostante tutti i notevoli sforzi per contrastarla ed i risultati messi a segno, non potrà che trovare ulteriori stimoli da un ennesimo aumento delle accise, con grave pregiudizio dell’Erario ed inquinamento del mercato», l’intero settore si è pronunciato negativamente sul ricorso a tali misure di finanza pubblica. UNIONE PETROLIFERA manda a dire al Governo che «Invece di intervenire con nuovi aggravi, che continuerebbero a vessare gli automobilisti, occorre da subito dare attuazione alle misure approvate a fine anno per contrastare l’evasione di Iva e accisa sui carburanti, purtroppo ampiamente presente nel settore e stimata intorno al 10%, acquisendo così risorse equivalenti». «L’ipotesi di un aumento delle accise sui carburanti non è purtroppo una novità e insiste nel penalizzare il settore petrolifero oltre che i consumatori» – afferma il Presidente UP Claudio SPINACI – «Stando alle nostre stime, per recuperare il miliardo di euro di cui si è sentito parlare in questi giorni, si tratterebbe di un ulteriore incremento di non meno di 3-4 centesimi euro/litro (attualmente il peso fiscale è pari al 65% per la benzina e al 62% per il gasolio). Le tasse sui carburanti – conclude il presidente UP – in Italia già oggi sono tra le più alte d’Europa, a fronte di un prezzo industriale (al netto delle tasse) allineato a quello degli altri Paesi europei». A sua volta, ASSOPETROLI, in persona del Presidente Andrea ROSSETTI, consegna ad una una nota stampa il seguente giudizio: «Accogliamo con estrema preoccupazione la possibilità recentemente paventata dal ministro Pier Carlo PADOAN di inserire un aumento delle accise tra le misure per il riequilibrio dei conti pubblici, che troveranno spazio nel prossimo Documento di Economia e Finanza. Tale misura,oltre ad incrementare il già gravoso carico fiscale al quale sono sottoposti i consumatori, si porrebbe in netto contrasto con tutti gli sforzi, fatti fino ad oggi, per arginare il fenomeno dell’evasione delle accise e soprattutto dell’Iva sui carburanti. Esiste infatti una chiarissima correlazione tra l’aumento del carico fiscale e il dilagare dell’evasione nel nostro settore, che si stima ammonti a circa il 10 per cento. L’aumento delle imposte sui carburanti penalizza consumatori e imprese e incoraggia il malaffare. Questa realtà è ampiamente riconosciuta e non può essere ignorata, nonostante le impellenze del bilancio pubblico». Anche i trasportatori sono sul piede di guerra: CONFTRASPORTO [confederazione delle imprese di trasporto (35mila quelle associate a livello nazionale)] non è per niente disponibile ad un ennesimo aumento delle accise, come fa sapere a mezzo di una nota in cui si augura che le annunciate misure di aumento, in ogni caso inaccettabili, non vadano a modificare ulteriormente in peggio i fattori competitivi dei nostri trasportatori. «In tal caso» – dichiara Paolo UGGÈ, Presidente di CONFTRASPORTO nonché Vicepresidente nazionale di CONFCOMMERCIO – «gli operatori potrebbero decretare la sospensione delle attività”. Evidenziando che in Italia il prezzo del gasolio è il più caro d’Europa, aggiunge che «non è possibile stipulare accordi con il Governo e poi trovarsi con tagli mai concordati su fondi strutturali legati al settore. Le intese già stabilite vanno rispettate. Mi riferisco, ad esempio, alla compensazione dell’accisa per il gasolio da autotrazione». Ulteriori tagli avrebbero come esito esattamente l’opposto di quanto prevedono gli obiettivi dichiarati dal Governo – rimettere in equilibrio i conti pubblici e rispettare il diktat di Bruxelles -: «Gli operatori del settore si vedrebbero costretti a effettuare rifornimenti all’estero, producendo riduzioni significative alle entrate dello Stato». Infine, sul tema caldo delle accise, si registra un iniziativa di un gruppo di quasi una quarantina di parlamentari del PD, di area renziana – come ben appare dal testo! -, primo firmatario l’on.le Edoardo FANUCCI, che presenta alla Camera una mozione che impegna il governo a non modificare la tassazione sui carburanti ed a reperire altrove le risorse necessarie, con le seguenti argomentazioni: <<La Camera, premesso che: il Governo Renzi, in linea con la riduzione della spesa e delle imposte sui redditi di famiglie e imprese, ha perseguito da subito l’obiettivo della diminuzione della pressione fiscale; è stato mantenuto l’impegno, con la Legge di Stabilità 2016, di eliminare l’Imu e la Tasi sulla prima abitazione. Inoltre, con il medesimo provvedimento, è stato previsto, tra le altre cose, l’eliminazione dell’Imu sugli “imbullonati” e l’eliminazione dell’Imu sui terreni per le imprese agricole; l’IRES, l’imposta sul reddito delle società, si è ridotta dal 27,5 per cento al 24 per cento a partire dal 2017, con uno sgravio fiscale complessivo di 3,8 miliardi di euro nel primo anno e di circa 4 miliardi nel secondo; l’impegno del Governo Renzi è continuato con la legge di bilancio 2017 che in tema di riduzione della pressione fiscale ha previsto, tra le altre cose: l’esenzione Irpef per chi ha una pensione che non supera 8.125 euro, anche se ha meno di 75 anni, ampliando la soglia al di sotto della quale non sono dovute tasse; la neutralizzazione, anche per il 2017, delle “clausole di salvaguardia” che per rispettare gli obiettivi di finanza pubblica avrebbero causato l’aumento automatico dell’Iva e delle accise; la riduzione del canone Rai, che passa dai 113,50 euro del 2015 a 100 euro nel 2016 e 90 euro nel 2017; la proroga all’anno in corso della sospensione dell’efficacia delle leggi regionali e delle deliberazioni comunali – per la parte in cui aumentano i tributi e le addizionali attribuite ai medesimi enti; l’abolizione dell’IRPEF agricola; dal 2018, inoltre, come più volte dichiarato dal Ministro Padoan, è prevista la riduzione Irpef alle famiglie; la somma delle diverse riduzioni d’imposta o di misure equivalenti, a partire dagli 80 euro in busta paga, ha portato la pressione fiscale al 42,1 per cento nel 2016, dal 43,6 del 2013, come certificato dalla Nota di aggiornamento del DEF 2016; la correzione dei conti richiesta dalla Commissione europea al Governo italiano per rispettare la regola del 3 per cento nel rapporto tra deficit pubblico e PIL ha una entità di 3,4 miliardi di euro; come si evince dall’intervento descritto dal Ministro Padoan al Senato, il Governo starebbe per emanare un decreto entro il mese di febbraio, che dovrebbe prevedere una revisione delle accise su tabacchi e carburanti e determinati tagli di spesa; la restante parte della correzione dei conti pubblici dovrebbe essere definita in aprile con l’emanazione del Documento di economia e finanza 2017, in modo da poter rivedere l’obiettivo di finanza pubblica anche in base ai nuovi dati sulla crescita economica; il provvedimento che dovrebbe concentrarsi sui ritocchi alle accise su tabacchi e carburanti rischia di riportare ad una crescita della pressione fiscale muovendosi in controtendenza rispetto alle politiche attuate prima dal Governo Renzi e ora dal Governo Gentiloni; IMPEGNA IL GOVERNO a valutare di reperire le risorse necessarie per la correzione dei conti richiesta dalla Commissione europea unicamente dal taglio alla spesa pubblica improduttiva e dalla lotta all’evasione fiscale, senza incidere sulla revisione delle accise su tabacchi e carburanti al fine di scongiurare l’aumento della pressione fiscale». Che questa levata di scudi possa portare a soluzioni diverse da quelle prospettate, sembra arduo da prevedere. È invece di palmare evidenza che la quota di fabbisogno che il Governo intende «spillare» [e, in fatto di «spillature», è di questi giorni il sovragettito di 0,5 miliardi euro «saltato fuori» sul canone RAI infilato in bolletta] dall’aumento delle accise corrisponde solo a quota parte di quanto sottratto all’erario dalle attività illegali nel settore. Ma finirà che invece di applicarsi a pulire la spazzatura che sta sotto al tappeto – la lotta all’illegalità ha tempi lunghi, costi complessi ed elevate alee di incertezza sui risultati in termini di recupero -, come sempre, sarà più appagante fare un salto al bancomat del consumatore, dove i soldi sono sempre pronti, sempre subito e sempre in contanti. |
LE ACCISE [IVATE] IN ITALIA ED IN EUROPA— 12 Febbraio 2017Gli ultimi dati della Commissione Europea [rilevazione prezzi del 06.02.2017], letti non già in base alle ponderazioni relative alle diverse quantità di carburante vendute in ciascun Paese rispetto al totale comunitario [è chiaro che i consumi di un Paese di 80 milioni di abitanti non sono quelli di un Paese di 2 milioni di abitanti!] , bensì con il banale confronto su quanto è tassato un litro di benzina o di gasolio ad Amsterdam piuttosto che ad Atene, ci dicono che la somma di accisa ed IVA sulla accisa è in Italia più elevata del 33,8 % per la benzina e del 39,1 % per il gasolio rispetto alla media aritmetica di tutti i 28 Paesi dell’Unione Europea, più elevata del 28,6 % per la benzina e del 38,1 % per il gasolio rispetto alla media aritmetica dei 19 Paesi dell’area con valuta euro. L’imposizione di base [accisa ivata] sulla benzina è infatti in Italia pari a 0,899 euro/litro, contro una media di tutta la Comunità di 0,672 ed una media dell’area a valuta euro di 0,699; mentre l’imposizione di base sul gasolio è in Italia pari a 0,753 euro/litro, contro una media di tutta la Comunità di 0,541 ed una media dell’area a valuta euro di 0,545. Solo l’Olanda, con 0,941 euro/litro per la benzina, ed il Regno Unito, con 0,778 euro/litro per il gasolio, ci sopravanzano. In altre parole, l’Italia parte con un gap competitivo con l’Europa per questa fonte di energia – che alimenta la mobilità privata e quella delle imprese, la movimentazione delle merci e dei servizi – di oltre 37 punti percentuali. A ciò si aggiunga che il reddito disponibile equivalente pro-capite è in Italia inferiore di circa 2 punti percentuali alla media comunitaria [dato che sale a 11 punti nel confronto con i Paesi di area valutaria euro]. E si sommino i due numeri. Si aggiunga, tanto per finire il discorso sui confronti, che i Paesi che sopportano un peso fiscale maggiore rispetto all’Italia [del 4,7 % in più l’Olanda, del 3,4 % il Regno Unito] hanno però anche un reddito superiore a quello italiano [del 34,4 % in più l’Olanda, del 32,2 % il Regno Unito]. Sei anni fa, il 7 febbraio 2011 [con un’Unione di 27 Paesi], la media complessiva comunitaria di accisa ed iva sull’accisa era pari a 0,634 euro/litro per la benzina, a 0,487 per il gasolio, la media degli allora 17 Paesi di area valutaria euro era pari a 0,657 euro/litro per la benzina, a 0,480 per il gasolio, e l’Italia registrava 0,677 euro/litro per la benzina e 0,508 per il gasolio. L’aumento in sei anni – ma si è trattato di un aumento, per quanto riguarda l’Italia, realizzato sin dalla fine del 2011 e rimasto intonso – sulla benzina è stato, dunque, in tutta Eurolandia di 6,0 punti percentuali, nei Paesi comunitari di area valutaria euro di 6,4 punti percentuali ed in Italia di 32,8 punti percentuali [cinque volte tanto], sul gasolio parliamo di 11,1 punti percentuali in tutta la Comunità, di 13,5 punti nei Paesi a valuta euro e di 48,2 punti percentuali in Italia [quattro, quattro e mezzo, volte tanto]. Per completezza, sei anni fa, l’Italia superava la media comunitaria totale solamente di 6,8 punti percentuali sulla benzina e di 4,3 sul gasolio, e sui Paesi a valuta euro tale divario scendeva a 0,7 punti percentuali sulla benzina e saliva a 5,8 sul gasolio. Aggiungiamo, sempre con un occhio a competitività e potere d’acquisto, che nel 2011 il reddito disponibile equivalente pro-capite era in Italia superiore alla media comunitaria totale di 6,6 punti percentuali ed inferiore di 6,8 punti percentuali alla media dei Paesi di area valutaria euro. Dal 2011 in poi il reddito pro-capite è aumentato in tutta l’Unione di 7,8 punti percentuali, nei Paesi ad area valutaria euro di meno di metà, ossia di 3,1 punti percentuali mentre in Italia è diminuito di 0,8 punti. Chi vuole confronti mentalmente le dinamiche tra le vere e determinanti grandezze significative: imposte, reddito, competitività…. Sui dati spiccioli al 6 febbraio 2017 c’è da rilevare che, se in Italia l’accisa sulla benzina è pari a 0,728 euro/litro [0,737 se si considera anche l’incidenza ponderata in base alla quota di consumi delle addizionali regionali di accisa], la media comunitaria a 28 Paesi è di 0,552, quella media dei 19 Paesi a valuta euro è di 0,578, mentre il massimo è assegnato all’Olanda con 0,778 euro/litro ed il minimo alla Bulgaria con 0,363; se in Italia l’accisa sul gasolio è di 0,617 euro/litro, la media comunitaria totale è di 0,445 mentre quella dei 19 Paesi a valuta euro è di 0,451, con un massimo di 0,648 euro/litro per il Regno Unito ed un minimo di 0,330 per la Lituania. La grandissima diversificazione delle accise fa pendant con quella dei dati dell’imposta sul valore aggiunto: l’aliquota italiana è del 22 % contro una media comunitaria a 28 Paesi del 21,46 % ed una media per i 19 Paesi a valuta euro del 20,84 %, con un minimo del 17 % per il Lussemburgo ed un massimo del 27 % per l’Ungheria. Poi, nonostante queste ragguardevoli differenze, le statistiche comunitarie fanno le medie ponderate sui consumi di ciascun Paese per raccontarci la storia del prezzo al consumo medio, della tassazione media ed infine del prezzo industriale medio del famoso «litro medio di carburante medio europeo medio»! LE ACCISE IVATE AL 06.02.2017 – €/LITRO
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AUTOSTRADE GEN-SET 2016: GAP DEL 10 % TRAFFICO VS/ VENDITE— 12 Febbraio 2017I dati delle vendite del periodo gennaio-ottobre 2016 sono stati da poco pubblicati [01.02.2017, si veda anche Figisc Anisa News N. 3 del 05.02.2017], ed il dato significativo nella rete registra una variazione di segno rosso sullo stesso periodo del 2015, un – 1,71 % -, dato che assomma due distinti risultati negativi per ciascuno dei segmenti, la rete ordinaria e quella autostradale, con la differenza che, se la rete ordinaria perde 1,34 punti percentuali, quella autostradale ne perde, invece, 6,07 [vendite pari a 1,324 miliardi di litri contro 1,409 miliardi di litri da gennaio ad ottobre del 2015]. Dopo il -7,56 % del 2015, si tratta del tredicesimo saldo negativo dal 2003 [quando ancora si vendevano 3,604 miliardi di litri nei primi dieci mesi e la differenza del 2016 sul 2003 è un tonfo del 63,26 % e un’emorragia di 2,280 miliardi di litri]. Una ulteriore flessione delle vendite dei primi dieci mesi, che fa da contraltare all’incremento, nello stesso intervallo, dei volumi di traffico. I dati delle vendite, contabilizzati dal MISE ad ottobre, sono più aggiornati di quelli del traffico di AISCAT, fermi a settembre. Incrociando i dati omogenei a settembre – vendite di nove mesi -6,08 % sullo stesso intervallo 2015 e traffico di nove mesi +3,62 % sullo stesso intervallo 2015 -, il gap tra i due parametri delle vendite e del traffico è di 9,69, diciamo dieci in cifra tonda, punti percentuali. Nel dettaglio delle vendite da gennaio a settembre 2016, in tutti i mesi, tranne che per quello di marzo [+2,06 %], si registrano diminuzioni rispetto allo stesso mese del 2015, entro valori limite minimi di -2,46 % e massimi di -12,66 %; i mesi peggiori, con flessioni superiori all’8 %, risultano, dal peggiore all’indietro, aprile, gennaio, luglio e giugno. Nel dettaglio del traffico da gennaio a settembre 2016, in tutti i mesi, tranne che per quello di aprile [-0,95 %], si registrano aumenti rispetto allo stesso mese del 2015, entro valori limite minimi di +1,02 % e massimi di +10,62 %; i mesi migliori, con incrementi cioè superiori al 4 %, risultano, dal migliore all’indietro, febbraio, marzo e luglio.
Il gap in termini di punti percentuali tra dinamiche del traffico e dinamiche delle vendite si è andato lievemente attenuando grazie all’apporto dei mesi estivi, notoriamente i più trafficati e quelli in cui sono maggiormente elevate le vendite. E infatti il dato cumulato a settembre, 9,69 punti, è inferiore di circa un quarto rispetto a quello di inizio d’anno, in cui a gennaio e febbraio si registrava un dato superiore a 12,5 punti. Un dato destinato, comunque, a peggiorare sul finire d’anno nei tre mesi residui da contabilizzare. |
POLITICA, SINDACATO, GESTORI & VIA DICENDO— 12 Febbraio 2017AVVERTENZA: Le opinioni ed i giudizi espressi nell’articolo di seguito pubblicato non riflettono necessariamente né in tutto, né in parte l’opinione della FIGISC, ma esclusivamente quella del suo estensore. La recente vicenda della risposta della Viceministro allo sviluppo economico BELLANOVA sull’interrogazione parlamentare concernente ESSO ed il «modello grossista» ha lasciato basite le organizzazioni di categoria dei gestori [si veda la notizia sempre su Figisc Anisa News N. 3 del 05.02.2017]. Il che si aggiunge ad un precedente riscontro assai poco concludente – anche se tale insoddisfazione non si è espressa in sede pubblica – con il Ministero: l’incontro, richiesto alla stessa Viceministro sin dal settembre 2016, sullo «stato di crisi» del settore [su Figisc Anisa News N. 22 del 21.09.2016], accordato con notevole ritardo ed al quale la Viceministro non si è neppure presentata. Si accumula un senso di frustrazione verso una politica – e ovviamente verso le istituzioni -, che appare disinformata e sostanzialmente sfuggente ed indifferente alle difficoltà del settore, per non dire poi delle difficoltà della categoria dei gestori. E ciò a maggior ragione perché è dalla politica e dalle istituzioni che ci si attenderebbe una qualche forma di tutela e di mediazione rispetto alla criticità dei rapporti interni al settore, all’evoluzione caotica del sistema e del mercato, ecc. e perché si è consapevoli, ora più che mai, parallelamente, della difficoltà di ricorrere a quelle forme di «mobilitazione» di altri tempi – che servivano a richiamare l’attenzione dei Governi ed a stimolarne la funzione mediatrice -, perché il sistema distributivo, per dirla con una formula elegante, ha già elaborato gli «anticorpi» contro la dipendenza dalle tensioni sociali interne [ossia, quasi metà della rete, tra indipendenti, gestioni paradirette, figure anomale, ecc., è in grado di garantire sempre il servizio, la sua interruzione non è una minaccia deterrente per nessuno]. Cosa aspettarsi dalla «politica» è difficile persino da pensare. La politica in senso lato, almeno così come siamo abituati a vederla evolvere, in senso sempre più autoreferenziale, ha aspettative soprattutto per se stessa, parla un suo linguaggio e celebra i suoi riti con grande distacco dai disagi reali della gente, e, se anche di questi ultimi occasionalmente si occupa, lo fa difficilmente per risolverli od attenuarli, più spesso invece per usarli, l’un contro l’altro, per le risse di fazione. Forse è un ragionamento schematico, forse non tanto. Cosa aspettarsi dai Governi, è altrettanto difficile da pensare. A nessuno sfugge che le stagioni della «concertazione» sono, e non da oggi, finite, che la funzione di governo è sempre più espressa per emergenze ed urgenze varie, che le macro logiche di sistema non stanno neanche più nel Paese, ma sono state devolute, con una cessione di sovranità – reale se non ancora totalmente di diritto -, alla super entità dell’Unione Europea. In questo contesto diventare soggetti sociali, categorie, cittadini «residuali» [in italiano = che non contano nulla, destinati a scomparire, obsoleti] è quasi un esito scontato. Si aggiunga che oggi parlare di «petrolio» è come essere un cane in chiesa. Un certo pressapochismo ed una notevole ideologicità dell’approccio alle fonti energetiche alternative – per usare un termine volutamente ampio –, rendono parlare di petrolio un argomento da passatisti demodè, complici anche in questo le grandi opzioni comunitarie e l’obbligo a dovervisi adeguare, sottacendo, oltre a tante altre cose, che nell’equazione economica della sostituzione energetica il costo lo paga comunque il settore tradizionale. Non che in passato vi sia stata molta attenzione, del resto. Le istituzioni si sono interessate del settore sempre per la semplice ragione che i carburanti NON sono una merce normale, dal momento che lo Stato è sempre stato il «socio maggioritario» della loro distribuzione [parentesi retrospettiva: dal 1960 al 2016 parliamo di 56 anni, forse non tutti sanno o ricordano che in questo bel gruzzolo di anni l’incidenza media sul prezzo finale delle imposte è stata del 68 % sulla benzina e del 54 % sul gasolio]. I Governi, riservandosi sempre il diritto di prelievo a seconda delle esigenze, hanno gestito senza molto sforzo né dispendio per molti anni alcuni meccanismi di controllo dei prezzi, poi hanno affidato il tutto al mercato, talvolta – come nella stagione delle «lenzuolate» delle liberalizzazioni – prendendo misure mediatiche per dare al consumatore l’impressione che si trattasse di una merce normale, ovvero assecondando le spinte conservative od innovative di questo o quel potere forte interessato a gestire il settore, o ad entrarvi, nel settore, facendo sporadica moral suasion sui prezzi o istituendone l’obbligo di pubblicità. Niente di più, niente di meno. Da ultimo – e sono ormai trascorsi cinque anni -, subito dopo avere pescato a piene mani nel sacco delle imposte [«Salva Italia»], hanno fatto – e veniamo a quel che ci riguarda da vicino – una cosa che non è affatto la peggiore tra quelle fatte, ma con un suo «retrogusto» amarognolo: hanno consegnato al settore alcune generiche regolette di massima per gestirsi internamente [«Cresci Italia», ossia la legge 27/2012 sulle liberalizzazioni], con la convinzione che fosse anche l’ultima cosa che era da fare e che da allora innanzi del settore ci si dovesse eventualmente occupare solo per aumentare le imposte all’occorrenza [e, infatti, ci risiamo]. In parole povere: «vi abbiamo dato regole, ora arrangiatevi, gestitevi e non disturbateci per inezie, vi sono ben altre gatte da pelare». Forse anche questo è un ragionamento schematico, forse non proprio tanto. Che, in aggiunta, cinque anni siano da allora trascorsi senza che quelle regole abbiano avuto una loro pratica applicazione [non ritorniamo a dire la responsabilità non è a senso unico], che non ne siano state corrette le genericità, che non ne siano stati sviluppati i contenuti insufficienti [l’assenza di strumenti di deterrenza ad eludere le finalità ed i princìpi della norma, l’indeterminatezza del danno e del ristoro per la parte soccombente, ecc.], che il livello della conflittualità reale – quella effettiva, piuttosto che quella denunciata – nel settore sia peggiorato, che il mercato si sia incattivito e da ultimo inquinato, che primarie aziende se ne vadano dal Paese o si inventino modelli di terziarizzazione progressiva, sono fatti tutti che non sembrano idonei per concentrare – se non per brevi spot – nuove attenzioni per un settore che serve solo a fungere da vettore per «fare cassa» e che, peraltro, appare «maturo» [in italiano = vecchio], non più prioritario per il «politicamente corretto» del «dopo» petrolio. Tutto concorre a mettere oggettivamente in difficoltà quel ruolo che le organizzazioni di categoria ritenevano tutto sommato consolidato, ed in qualche modo confermato anche nei tempi più difficili: a) da un lato, l’evoluzione di tutti i molteplici processi che hanno demolito le rappresentazioni «ideologiche» di un orizzonte di «diritti senza mercato» [il contratto unico, il margine concordato, la filosofia del «meglio vendere di meno, ma con un margine più alto», ed altre semplificazioni siffatte] e quindi reso sempre più evidente lo scarto tra rappresentazione del mondo e cruda realtà dei fatti, tra legittimazione alla rappresentanza ed efficacia della tutela degli interessi rappresentati. b) dall’altro, il progressivo affievolirsi della possibilità di avere una «istanza di appello» nelle istituzioni e nella politica, istanza disponibile a mediare i conflitti, a fissare regole buone per tutti, dettagliate e durevoli, che contribuiscano ad alleviare le criticità dei gestori, a riconfermare così, con dei risultati oggettivi dall’alto, il ruolo delle loro rappresentanze. Il disagio delle organizzazioni di categoria verso la politica e le istituzioni distratte, è, dunque, più che comprensibile, visto che il disinteresse della politica, il distacco con cui le istituzioni guardano al settore, ne mettono a rischio la loro funzione, giustificazione e riconoscibilità. Fare reinteressare al settore, se non per amore, almeno per forza, politica ed istituzioni è una fatica tutta in salita. Del resto, diciamo che il «socio di maggioranza» – lo stato, il governo – oggi potrebbe rivolgere le sua attenzione al settore solo perché, costretto a rimettere mano alla cassa, è per giunta sollecitato ad intervenire per il diffondersi dell’illegalità che distoglie quote imponenti di gettito. Al di là di questo, le sue responsabilità verso il settore sembrano solo «morali», il che non è molto. Eppure BISOGNA mettere mano alle regole di cinque anni or sono, e non solo in una chiave di difesa [quella per cui si invoca il ruolo mediatore e moderatore di istituzioni sempre meno interessate ad intervenire su istanze giudicate corporative e residuali], ma soprattutto di proposta che abbia un valore riconoscibile di utilità comune. Sul primo versante, perché quelle poche e generiche regole che da ultimo sono state date vanno riempite di contenuti, dove esse sono carenti [ne abbiamo citato sopra i punti sintetici], e «rinfrescate» rispetto alle evoluzioni della rete [le cessioni dei marchi a terzi senza tutele per le gestioni], sul secondo versante, perché c’è tutta una parte non attuata – quella dei nuovi contratti, che devono essere infine «liberati» – che non può essere solo una vaga possibilità «astratta», senza connettersi ad un progetto sullo svecchiamento dei modelli relazionali, organizzativi, del settore distributivo [ne abbiamo già parlato varie volte in relazione ai prezzi, alle rigidità della filiera, ecc.], una proposta complessiva che possa costituire un di più per il consumatore, per il sistema, oltre che per gli operatori finali della filiera, e costituire la ragione per cui politica ed istituzioni possano ancora avere un qualche interesse ad intervenire. E tuttavia, per le organizzazioni di categoria, «attaccare l’asino al palo» – per usare una metafora dei tempi che furono, anzi alla parte alta del palo, cioè preoccuparsi del versante istituzionale e politico – non è né esaustivo né sufficiente. Qualunque azione sia indispensabile per l’appello alla politica, le organizzazioni hanno bisogno di dimostrare di avere con sé una categoria. E siamo, detto con franchezza, in una situazione non semplice: che sono le organizzazioni oggi ad avere bisogno di una categoria, probabilmente più di quanto la categoria [che poi va pensata in un insieme di persone reali, ognuna col suo disagio, con la sua percezione della situazioni, con le sue disillusioni e, non da ultimo, con la sua, come dire, «incazzatura»] non pensi di avere ancora bisogno di una rappresentanza che sempre più difficilmente percepisce come idonea a tutelarla secondo le sue aspettative, o secondo quanto era stato promesso o assicurato. Bisogna, dunque, anche, per riprendere la stessa metafora, «attaccare l’asino alla parte bassa del palo»; riprendere l’antico mestiere – spesso dismesso – di riandare dalla nostra gente, metterla di nuovo assieme, ascoltare. non solamente, con un utile bagno di umiltà, le sue rimostranze, ma anche coglierne i suggerimenti [oggi, probabilmente, dal duro confronto con il mercato reale il gestore ne sa più del settore di quanto non ne sappiano i suoi rappresentanti spesso – sia detto con rispetto – attardati a dover difendere quel che purtroppo non c’è più], raccontare la verità ed i dubbi senza vendere certezze e dogmi, condividere una prospettiva di cose da fare – sia per tutelare l’esistente, sia per sviluppare nuovi modelli relazionali nel settore -, rifarsi dare, infine, un mandato, mandato che non è stato affatto affidato «per sempre», ma che si rinnova solo con il rendiconto e la verifica dei risultati. Insomma, uno sforzo immane, di lavoro, energia, cambiamento della mentalità e persino degli stili di rapporto e comunicazionali, immane – ma comune a tutta la vita associativa ed a tutte le rappresentanze, ben oltre ed al di fuori del nostro modesto recinto -, eppure non eludibile, né ulteriormente rimandabile: un «pacco» da caricarsi sulle spalle tutto intero, senza poterne scartare neanche un grammo. Ovviamente sono solo opinioni. Forse troppo esplicite perché hanno l’indelicatezza di dire che, in questi difficilissimi tempi, «il re è nudo», e bisogna aiutarlo a vestirsi, forse sono indelicate ed inopportune. Quando ci diranno di piantarla lì, di dedicarci piuttosto a «portar fuori» il cane, eviteremo di esprimerci ulteriormente. [G.M.] |