IN QUESTO NUMERO

INTERVISTA AL PRESIDENTE ANISA, MASSIMO TERZI

Presidente, ti leggo una nota diramata in questi giorni dalla Ministra Paola De MIcheli: «Nell’ambito del confronto con le associazioni…

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DRAGHI: «SIAMO IN GUERRA CONTRO IL CORONAVIRUS, DOBBIAMO AGIRE»

Riproduciamo di seguito, condividendone integralmente i contenuti, la dichiarazione di MARIO DRAGHI rilasciata al Financial Time in data 26.03.2020: di…

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Nota informativa
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INTERVISTA AL PRESIDENTE FIGISC, BRUNO BEARZI

INTERVISTA AL PRESIDENTE FIGISC, BRUNO BEARZI

Situazione gravissima nella rete distributiva dei carburanti: gente a casa, traffico in buona parte bloccato, vendite a picco, presìdi sanitari insufficienti, liquidità esaurita, eppure i benzinai sono lì a svolgere un servizio ancora ritenuto tra quelli essenziali. 

Dopo una prima fase, in cui ancora quindici giorni fa il massimo del sostegno offerto da compagnie e retisti ai gestori era quello di invitarli “a tutelare al meglio la salute delle proprie risorse” ed “a provvedere in proprio all’acquisto e all’utilizzo dei presìdi sanitari di base”, è subentrata da una settimana a questa parte una fase almeno più costruttiva, ancorché non di tutti i soggetti della rete. 

Sono stati sottoscritti “accordi di emergenza” con ENI (il primo in data 20 marzo), IP, Assopetroli e sono in corso di definizione con Q8 ed EuroGarages. Tutti questi hanno in comune, con alcune variabili da azienda ad azienda, alcune misure tampone per la fase più acuta della crisi, intervenendo in materia di drop e di pagamenti, di attivazione del self prepay, di dotazione dei DPI indispensabili, di coperture assicurative sanitarie, di rimodulazione di orari di servizio, di pagamento dei canoni di locazione dei locali commerciali, nonché di interventi a diretto sostegno con misure economiche una tantum di quanti per effetti diretti del contagio da COVID-19 siano impossibilitati a condurre gli impianti, e salvo l’impegno formale a definire ulteriori misure a fronte di specifiche difficoltà segnalate dalle Associazioni dei gestori.

Questi accordi e quelli in via di perfezionamento vengono messi a conoscenza degli operatori associati e le Organizzazioni restano attive ed in osservazione (e da qui il nostro hashtag #LAFIGISCNONSIFERMA) della loro applicazione e delle misure che fossero da implementare, oltre alle forme di intervento accessibili – con tutti i tempi e le burocrazie necessarie – previste dalle norme di sostegno del Governo ad imprese e famiglie e con pienamente attivi i canali istituzionali (da oggi, ad esempio, si attiva in conference call il tavolo di lavoro coordinato dal Ministero dello sviluppo economico). 

Certo che quanto codificato in questi “accordi di emergenza” non può essere risolutivo e  adeguatamente rapportato alle urgenze dei gestori, ma in questa prima fase risulta pressoché impossibile definire altro, anche per via di un  contesto di crisi che coinvolge l’intero Paese e tutte le realtà produttive e di servizio, nessun settore escluso. E, comunque, alcuni impegni economici dell’attività di gestione vengono solo differiti (creazione di debito dilazionato, in sostanza) a fronte di una liquidità ormai già esaurita a  causa di un crollo delle vendite che è già avvenuto e non è purtroppo anch’esso “differibile”, e che, peraltro, si propaga velocemente risalendo l’intera filiera distributiva e produttiva del comparto. 

Tutti questi accordi emergenziali si sono posti in scia di quello per primo attivato con ENI, per il quale va detto che ci siamo impegnati fino in fondo per concludere, consapevoli dei suoi limiti, ma anche del pessimo segnale in caso di una mancata convergenza, in primis per dare un sollievo al gestore, indi per costituire un esempio, dopo qualche settimana del muro di indifferenza, anche per il resto dei soggetti della rete. 

Altro dovrà essere definito a seconda dell’evolvere della situazione, innanzitutto rispetto alla protrazione ormai certa delle misure restrittive dettate dall’emergenza sanitaria (ulteriore calo delle vendite, proroga delle dilazioni), e “dopo”, una volta usciti dal tunnel sanitario, per ricostruire una condizione di graduale normalità che difficilmente sarà lo specchio di “prima” considerate le cicatrici indelebili che questa vicenda lascerà impresse sull’economia non solo nazionale, ma globale, e di riflesso sull’occupazione ed il futuro delle nostre imprese e dei nostri giovani. 

Di sicuro dovrà essere garantito alle nostre microimprese l’accesso a tutte le misure di sostegno già emanate (e da organizzare per la loro reale applicazione ed efficacia, già in ritardo rispetto alle esigenze) e prossimamente emanande (il “decreto aprile”) in un contesto di chiarezza ed equità (per intenderci, non alla stregua delle “ruota della fortuna” dei click day che sembravano doversi applicare ai sussidi agli autonomi). 

Se dovessi spiegare al Governo perché l’attuale situazione è devastante per i gestori della rete carburanti cosa sarebbe importante far capire? 

Quello che è facilmente intuibile senza essere stati alla Bocconi  e che riguarda una grande fetta di imprese, soprattutto quelle commerciali: se non si vende non si incassa, non si arriva a pagare il prodotto in giacenza, e, oltre al circuito acquisto/vendite di merce, neppure i costi di gestione, l’onere dei dipendenti, le tariffe dei servizi tecnologici, ecc., ed inoltre perché anche se si arrivasse a razionalizzare il ciclo breve (comprando quel tanto che si sa di poter arrivare a vendere, e anche questo nel nostro settore ha dei vincoli imposti dai fornitori che solo in questi giorni si stanno attenuando), nel caso – come questo – in cui il quantitativo di prodotto diventa troppo esiguo, il bassissimo margine per singola unità di prodotto non può giustificare la sostenibilità economica della attività della microimpresa del benzinaio. Senza liquidità, credito, dilazione del debito, misure di sostegno diretto, e con incassi marginali chiunque capisce come va a finire. 

E se la prima circostanza (il crollo delle vendite) è conseguenza dei provvedimenti governativi di restrizione della mobilità come deterrente alla diffusione del contagio, quindi una congiuntura gravissima di ordine generale ed esterna al settore, la seconda (l’insufficiente rimuneratività) è un elemento tutto strutturale ed interno della distribuzione carburanti: con 0,035 euro/litro per un erogato medio per punto vendita di 1,3 milioni di litri/anno (regola “del pollo”), il risultato di esercizio è di 45.000,00 euro/anno, con cui remunerare costi, canoni, tariffe, addetti, imposte e previdenza. Una gestione di conto economico così risicata che persino l’avvento della fatturazione elettronica ha messo in crisi per i costi diretti ed indiretti derivanti dall’ennesimo adempimento, figurarsi in che condizione viene ridotta dalla cortocircuitazione del flusso finanziario di base. 

Si aggiunga (ricordo che dovrei far capire al Governo alcune cose del mondo della distribuzione) che in questo settore le cose funzionano in un certo modo. Il fornitore, che è anche proprietario in genere del punto vendita di carburanti (ossia la compagnia petrolifera o il retista, ecc.) vincola il gestore cui viene affidato l’impianto alla fornitura in esclusiva dei prodotti, ne fissa praticamente al 100 % il prezzo di vendita al pubblico e ovviamente il prezzo di fornitura al gestore stesso – che in genere avviene a valori molto più elevati di quelli con cui viene ceduto agli operatori indipendenti, alla grande distribuzione –  a fronte di un margine di 0,035 euro/litro, come già detto in precedenza. La concorrenza di chi ha accesso ai prezzi più favorevoli penalizza ovviamente le vendite del gestore che deve comprare al prezzo più caro e che ha un margine fisso che non può variare perché, pur essendo impresa formalmente, non decide in nessuna fase il prezzo dei beni che vende. Coronavirus a prescindere, ossia, questa era la situazione da anni consolidata già “prima” del COVID. 

Politica e media hanno equivocato sullo “sciopero non-sciopero” con giudizi, stroncamenti, rettifiche, ma fra chi non ha capito, altri più addentro al settore, hanno capito. 

E di un tanto ringrazio chi ha cercato di capire.

Alle volte, soprattutto in situazioni come quelle che questa categoria sta vivendo, può essere che i segnali che si lanciano non siano esattamente limpidi ed inequivocabili e si intenda consapevolmente che possano essere interpretati in modo diverso.

Come che sia quanto è stato rappresentato all’universo mondo voleva lanciare un grido di aiuto (peraltro ripetuto singolarmente o collettivamente più volte sin dall’inizio del mese di marzo) e dare un avvertimento di cui tutti dovessero essere consapevoli trattandosi di preservare un servizio essenziale che anche in questa emergenza rimane tale perché la mobilità che si tratta di rifornire è oggi strategica alla sopravvivenza del Paese. 

Se i gestori vengono lasciati soli – questo il senso di quell’appello – a sostenere questo impatto in una situazione in cui erano già fragili “prima” di tutto ciò, se gli altri attori del settore, piuttosto che Governo ed istituzioni, si girano dall’altra parte, da soli non potranno farcela.

Il senso, insomma, è “aiutateci a continuare questo servizio”, e maggiormente ora al servizio del Paese colpito da una sciagura che non avremmo mai neppure immaginato.  

Perché il gestore c’è comunque, è lì sul pezzo, anche se, di emergenza in emergenza, non c’è mai stato né tempo né voglia per risolvere i suoi problemi. 

Un’affermazione, quest’ultima, che suona intuitivamente familiare, ma che forse è meglio precisare…. 

Oggi stiamo attraversando una fase  in cui ci sarà poco e nullo tempo per affrontare qualcosa di più che non sia l’assoluta emergenza quotidiana. 

Una volta di più sembra – per dirla tutta – che, per una questione o per l’altra, per una emergenza reale o per una priorità fittizia, non sia mai l’ora “per” il gestore, l’ora, cioè, di risolvere qualcosa, una volta tanto, a suo favore. Ci sono sempre state “emergenze” più supposte che reali in nome delle quali non si è affrontato il nodo del ruolo del gestore nella filiera del mercato distributivo, emergenza prezzi, emergenza concorrenza, emergenza ristrutturazione, emergenza ambiente, emergenza illegalità … ogni volta c’è qualcosa che si sovrappone, o, nel migliore dei casi, che va affrontato da una prospettiva “complessiva” di settore che però finisce per cancellare semplicemente dall’agenda la soluzione delle sofferenze della categoria. 

Così, ad esempio, la ristrutturazione della rete (che con c’è mai stata) avrebbe – ogni volta che si è riportato, anche a distanza di anni, in auge il punto – consentito di ridurre il numero di impianti e quindi “dopo” di aumentare l’erogato medio degli impianti residui, rendendo così inutile discutere “prima” di contratti o di vincoli commerciali.

La liberalizzazione della rete e dei prezzi – con tutte le variabili connesse, dalle pompe bianche alla ghostizzazione all’informazione pubblica della concorrenza privata dei prezzi, un ambiente così più idoneo al rincaro delle accise sui carburanti -, riguardando la più vasta platea dei consumatori non poteva che venire ovviamente “prima” della corrispondente liberalizzazione dei vincoli contrattuali cui i gestori erano soggetti e sui quali si sarebbero scaricati, in quelle condizioni, gli effetti più devastanti della liberalizzazione di tutto il resto del settore. 

E, dopo sondate tutte le variabili del mercato “legale”, aumento delle imposte e libera circolazione dei prodotti, liberalizzazioni e creatività inventiva hanno fatto esplodere l’emergenza illegalità, una bolla che si è gonfiata negli anni posteriori al “Salva Italia” e che infine è stata affrontata alcuni anni dopo, guarda caso con una coda gravosa (quanto inefficace a contrastare l’illegalità vera e propria) di adempimenti e costi proprio per la categoria dei gestori, ancora una volta lasciati a subire gli effetti, sempre con le mani legate dagli schemi contrattuali e dai vincoli sui prezzi, di tutti i mercati legali ed illegali.

Un’emergenza (vera certamente! ma, che responsabilità ha il gestore?), ma sotto la cui ampia ondata si è riusciti a far diluire le molte cose buone che giusto un anno fa la risoluzione De Toma aveva portato all’attenzione del Parlamento: diciotto righe di specifiche misure di natura contrattuale e normativa nei rapporti gestori-aziende [punti b), d), e) f) ed i) con cui la risoluzione “impegnava il Governo”], poi asciugate in poche generiche petizioni di principio nella versione uscita dall’esame in Commissione. 

Ed infine a che serve affrontare marginali problemi di categoria (peraltro l’ultimo anello della filiera!) di un settore nel suo complesso ormai obsoleto, quando gli obiettivi, dati per certi a questo o a quel termine di qualcuno dei prossimi venturi decenni, sono quelli della rivoluzione ambientale, della sostituzione del parco vetture, della fine del fossile (non si sa con quali mezzi ed incentivi, e con quale gettito fiscale alternativo, ma avanti popolo!)? 

E oggi, infine, un’emergenza drammaticamente autentica, niente fiction in questo palcoscenico che non avremmo mai pensato di calcare. E il gestore, quello per cui non c’è mai tempo, quello che viene “dietro” e “dopo” tutte le altre emergenze vere o fasulle, quello per cui non è mai ora di risolvere qualcosa, quello per cui non si è fatto nulla per riuscire a renderlo almeno un po’ resiliente al mercato normale (figuriamoci ad una recessione globale) è sempre e ancora in postazione sul suo impianto, non c’è invenzione che tenga, che sia un ghost o un’auto elettrica. E, come ogni altro cittadino responsabile, in questo momento così buio per l’Italia, è ancora pronto a fare la sua parte. Ma lasciato solo non potrà, con tutta la sua generosità e buona volontà, farcela a lungo! 

Se e quando, infine, si uscirà da questo incubo forse si prenderanno a pretesto altre “emergenze” per continuare a tenere la categoria in un limbo di “specialità” del tutto estraneo alla “normalità” delle regole commerciali e di impresa che valgono per tutti gli altri?

INTERVISTA AL PRESIDENTE ANISA, MASSIMO TERZI

Presidente, ti leggo una nota diramata in questi giorni dalla Ministra Paola De MIcheli: «Nell’ambito del confronto con le associazioni di categoria e i concessionari autostradali, sono state considerate una serie di misure che rappresentano una prima risposta alle difficoltà manifestate. In particolare, i concessionari autostradali, su richiesta del MiT e del MiSE, si sono detti disponibili ad applicare misure provvisorie di sostegno che includono la sospensione del corrispettivo contrattuale da parte dei gestori di carburante e la gestione della pulizia dei piazzali. Dal canto loro, i gestori potranno concordare con i concessionari autostradali periodi di apertura alternata, in funzione della dinamica del traffico. Dovranno essere, in ogni caso assicurati, i rifornimenti in modalità self service. L’iniziativa – precisa la nota – è rivolta ad assicurare, anzitutto, la mobilità delle merci e del servizio di trasporto che rientra tra quelli di interesse pubblico essenziale ai sensi del Decreto legge n.18 del 17 marzo 2020.» Cosa ne pensi? 

È passato quasi un mese da quando, assieme alle altre Organizzazioni di categoria, ANISA ha chiesto ai concessionari delle tratte autostradali ed alle aziende proprietarie degli impianti di farsi carico della situazione, intervenendo a modificare nella fase emergenziale le condizioni fortemente restrittive che regolano gli obiettivi di acquisti minimi previsti dai contratti di fornitura e quelle relative al pagamento dei prodotti ed al Governo perché nei provvedimenti di natura economica per il Paese non solo preveda l’accesso anche per la categoria alle misure di sostegno, ma anche eserciti una opportuna moral suasion nei confronti dei soggetti forti del settore per una gestione dei rapporti commerciali ed economici tra privati adeguata alla gravità del momento. In quella stessa data (5 marzo) abbiamo richiesto misure specifiche sia per prevenire e contenere la diffusione del contagio, sia per contenere i costi del servizio a fronte della caduta verticale delle vendite, da adottarsi in via temporanea sugli impianti della rete autostradale, ossia lo svolgimento del servizio di rifornimento nella sola modalità del self service, pur continuando a garantire in forza minima il presidio dell’area per poter assicurare l’intervento in caso di necessità dell’utente. 

Nelle settimane successive si è richiesto – e non una sola volta – a) al Governo, interventi in materia di slittamento del pagamento di contributi ed imposte, accesso alla Cassa Integrazione Guadagni nonché sospensione delle imposte locali,  b) alle concessionarie di assumere temporaneamente l’onere di sistema del servizio, devolvendo per la fase temporale emergenziale a favore dei gestori le royalty percepite e percipiende sui servizi di sub concessione e consentendo lo svolgimento del servizio in esclusiva modalità self service, c) alle aziende assegnatarie della sub concessione (ossia le Compagnie), di mettere in salvaguardia economico-finanziaria le gestioni congelando il pagamento di alcune forniture, di rinunciare agli affitti sulle attività non oil, di  fornire i necessari presìdi sanitari per lo svolgimento delle attività, di prevedere in caso di contagio, o positività, del Gestore o dei suoi addetti, che comporti la chiusura e/o la messa in quarantena dell’attività, misure adeguate di sostegno economico per farvi fronte. 

Infine, si è denunciato con forza che senza interventi di sorta, i gestori non sono nelle condizioni di andare avanti perché non ci sono vendite, non ci sono incassi, non c’è linea di credito né liquidità. Questo grido di dolore è stato interpretato come una minaccia di sciopero, il che ha determinato una certa attenzione del Governo. 

Ma, tatticismi e fraintendimenti a parte, si è giunti al 30 marzo per registrare che siamo ancora al punto di partenza: nessuno degli interventi richiesti ha avuto luogo, per di più la situazione generale è peggiorata in conseguenza del progressivo e generale lockdown in cui è stato rinchiuso il Paese.

Tocca attendere la conference call odierna per capire quali “disponibilità” e quali “misure provvisorie” i concessionari e gli altri soggetti siano disposti a mettere in campo. 

Ma provvedimenti quali la turnazione o, se vogliamo chiamarla così, apertura alternata, unitamente alla “concessione” di poter effettuare il servizio self service quale sostegno o sollievo possono dare? Non è che stiamo prendendo fischi per fiaschi? 

La risorsa umana degli impianti autostradali deve garantire tre turni sulle 24 ore, vuol dire in condizioni normali – ma molto dipende dalle vendite delle diverse realtà territoriali – avere da sei a nove dipendenti, con un regime di vendite di 9.000-10.000 litri al giorno (si parla della media nazionale per impianto, che è nella rete in concessione di circa 3,5 milioni di litri/anno). In questo periodo emergenziale, si vendono meno di 1.000 litri, ossia un nono, un decimo della normalità. 

Già nella maggioranza degli impianti si è riorganizzata la modalità di servizio nella direzione del solo self service, già purtroppo si è dovuto ristrutturare la risorsa umana per questa situazione eccezionale, ciò non di meno oggi continuare in queste condizioni – dovendosi comunque fare fronte agli alti costi fissi di esercizio necessari al mero funzionamento di strutture tanto complesse, anche utilizzando il minimo di risorsa lavorativa indispensabile a mantenere l’erogazione – significa non solo fare volontariato, significa perdere giornalmente da 1.000,00 a 1.500,00 euro, senza parlare neppure del costo dei prodotti pagati ancor prima quasi di essere venduti e difficilmente rimpiazzabili per mancanza di liquidità. 

Quanto alla turnazione, oppure apertura alternata (per intenderci il meccanismo delle aperture minime precettate in caso di sciopero), non è assolutamente ciò che allevia in alcun modo la situazione di chi può restare chiuso per quel turno – comunque venga strutturato su base giornaliera o settimanale o altro -, in quanto la situazione più sopra illustrata vale per tutti, ossia per chiunque continui la sua attività sia in servizio che in turno di chiusura. 

Le emergenze dunque, oltre a quella sanitaria di sicurezza delle persone e dei luoghi, sono due: da un lato non c’è liquidità disponibile per chi dovesse continuare a restare aperto, sia pure con la sola modalità self ed a risorsa umana minimale, per l’acquisto dei prodotti, e non ce n’è neppure per chi tiene chiuso, perché i costi di sistema rimangono sul groppone per tutti. E quindi, o in questa situazione si pongono in essere tali due assi di intervento – ossia dilazione degli impegni di pagamento per ricostituire una minima liquidità e sostegno in termini di assunzione temporanea del costo degli oneri di sistema in capo al sistema stesso – o non si va da nessuna parte, se non a consegnare i libri contabili in tribunale. 

Ora c’è questo disastro generale per il Paese intero che incide sul comparto azzerando o quasi le vendite, ma la categoria arriva a questa crisi drammatica dopo anni di cali di vendite e di difficoltà, con le imprese di gestione sostanzialmente già stremate… 

Mi limito a parlare della rete in concessione – per quella ANAS i dati sono, se possibili, ancora peggiori – e con il limite di non avere ancora disponibili tutti i dati del 2019 per tirare una somma finale (pur avendo coi dati a disposizione molto chiaro un ulteriore segno negativo). Mi fermo al 2018 ed evidenzio solo pochi dati per far capire che in autostrada la difficoltà viene da lontano: dal 2001 al 2018 il calo delle vendite di carburanti è stato del 66 %, le vendite medie per impianto autostradale nello stesso tempo sono crollate da 9,8 milioni di litri a 3,2 milioni di litri; per fare un esempio pratico, ogni 100 km di percorrenza in autostrada nel 2001 si vendevano 5,72 litri di carburanti, nel 2018 ridotti a 1,65 litri.

E, per fare un paragone, sempre dal 2001 al 2018, mentre la rete stradale ha perso il 30,8 % delle vendite (effetti della crisi economica che ci eravamo appena lasciati alle spalle, efficientamento energetico dei motori, ecc.), quella autostradale ha perso il 65,7 %.

Nello stesso periodo, però, e nonostante la gravi flessioni degli anni dal 2009 al 2014, il traffico è cresciuto del 3,4 % per i veicoli leggeri e del 4,9 % per quelli pesanti. 

Esattamente: le imprese di gestione erano già stremate da parecchio tempo prima del COVID e arrivano a questa stretta in condizioni di non poter opporre nessuna resilienza. 

Abbiamo chiesto ai concessionari di farsi carico della situazione emergenziale… Richiamo un articolo di qualche giorno fa, comparso su Il Fatto Quotidiano, dal significativo titolo “Virus, anche Benetton & C. chiedono soldi al governo”, in cui si spiega che AISCAT lamenta l’esclusione dei concessionari dal “Cura Italia” (e chiedendo la sospensione di tasse, canoni, debiti, ecc.), sostenendo che ciò “comporta sin da ora gravi ripercussioni sulla capacità dei concessionari di poter sostenere i costi operativi connessi alla necessità di mantenere in esercizio le infrastrutture”… 

Cerco di essere pacato, evidenziando anche in questo caso una serie di dati per capire con cosa e con chi abbiamo a che fare.

Intanto, i pedaggi percepiti dai concessionari sono aumentati del 100,96 % dal 2001 al 2018 (da 4,135 a 8,309 miliardi di euro), con una resa per km cresciuta da 0,739 milioni di euro/km a 1,384, anche se è pur vero che bisogna foraggiare con quei proventi ANAS

La quota percentuale di  spesa degli utenti autostradali (carburanti, acquisto altri beni e servizi e pedaggi) riservata ai pedaggi era nel 2001 del 47 %, nel 2018 era salita al 73 %. 

Secondo stime prudenziali, nel periodo 2003-2018 l’ammontare delle royalty imposte dai concessionari alle vendite di carburanti e beni e servizi diversi – stanti i volumi di carburanti venduti e l’ammontare economico dei servizi diversi erogati – ammonterebbe cumulativamente a circa 5,3 miliardi di euro, di cui circa 250 milioni nel 2018.

Perché parliamo di royalty? Perché esse sono una delle cause della progressiva perdita di appeal della rete autostradale, facendo costare progressivamente sempre più all’utente beni e servizi che gli costano sempre meno fuori dalla rete per accedere alla quale paga già un pedaggio sempre crescente (sono gli effetti dei piani finanziari concordati tra Governo e concessionari) e paga un balzello ulteriore per fare benzina o bere una bibita che fuori dal contesto obbligato trova ad un prezzo più conveniente. 

Si aggiunga a ciò che questo meccanismo influenza, in maniera più o meno spregiudicata, anche le politiche di pricing dei sub concessionari (le compagnie petrolifere, ecc.) che alimentano un differenziale crescente con i prezzi della rete ordinaria e tra le modalità di servizio, determinano discriminazioni tra impianti ed impianti in relazione agli impegni assunti dalle compagnie con i concessionari, per comprendere le difficoltà in cui da anni si dibattono le piccole imprese di gestione, fatalmente spinte verso il default economico. 

Quello delle royalty (di cui, peraltro, per dire tutta la verità, anche lo Stato è in parte beneficiario) è un balzello  intollerabile tenuto conto della libertà di aumento dei pedaggi che è stata usata in tutti questi anni, e costituisce una “rendita di sedime” del tutto ingiustificata su investimenti e lavoro fatti e condotti ad esclusivo rischio di terzi soggetti investitori e gestori, determinando anche una oggettiva discriminazione degli utenti ai quali la Costituzione dovrebbe assicurare condizioni di accesso a beni e servizi minime ed omogenee in tutto il territorio nazionale e una asimmetria tra imprese rispetto alle regole di concorrenza e mercato. Se in un prossimo futuro questa anomalia non sarà rimossa, non vi è alcuna speranza di invertire il trend consolidato in autostrada da molti anni a questa parte che ha condannato questo comparto alla marginalità. 

Per tornare a noi: la drammaticità della situazione che stiamo vivendo è sotto gli occhi di tutti, in questo frangente non sono giustificate rendite di posizione, che, ove comunque incamerate, devono essere messe ora a disposizione per superare l’emergenza e salvaguardare l’anello debole (e già stressato), ma indispensabile, della filiera.

Diversamente, sulla sopravvivenza stessa del servizio non si può più continuare a scommettere.

DRAGHI: «SIAMO IN GUERRA CONTRO IL CORONAVIRUS, DOBBIAMO AGIRE»

Riproduciamo di seguito, condividendone integralmente i contenuti, la dichiarazione di MARIO DRAGHI rilasciata al Financial Time in data 26.03.2020:

di Mario Draghi 26 mar 2020

Mario Draghi: «Siamo in guerra contro il coronavirus, dobbiamo agire»

La pandemia del coronavirus è una tragedia umana di proporzioni potenzialmente bibliche. Oggi molti temono per la loro vita o piangono i loro cari scomparsi. Le misure varate dai governi per impedire il collasso delle strutture sanitarie sono state coraggiose e necessarie, e meritano tutto il nostro sostegno.

Ma queste azioni sono accompagnate da un costo economico elevatissimo – e inevitabile. E se molti temono la perdita della vita, molti di più dovranno affrontare la perdita dei mezzi di sostentamento. L’economia lancia segnali preoccupanti giorno dopo giorno. Le aziende di ogni settore devono far fronte alla perdita di introiti, e molte di esse stanno già riducendo la loro operatività e licenziando i lavoratori. Appare scontato che ci troviamo all’inizio di una profonda recessione.

La sfida che ci si pone davanti è come intervenire con la necessaria forza e rapidità per impedire che la recessione si trasformi in una depressione duratura, resa ancor più grave da un’infinità di fallimenti che causeranno danni irreversibili. È ormai chiaro che la nostra reazione dovrà far leva su un aumento significativo del debito pubblico. La perdita di reddito a cui va incontro il settore privato – e l’indebitamento necessario per colmare il divario – dovrà prima o poi essere assorbita, interamente o in parte, dal bilancio dello stato. Livelli molto più alti di debito pubblico diventeranno una caratteristica permanente delle nostre economie e dovranno essere accompagnati dalla cancellazione del debito privato.

Il giusto ruolo dello stato sta nel mettere in campo il suo bilancio per proteggere i cittadini e l’economia contro scossoni di cui il settore privato non ha alcuna colpa, e che non è in grado di assorbire. Tutti gli stati hanno fatto ricorso a questa strategia nell’affrontare le emergenze nazionali. Le guerre – il precedente più significativo della crisi in atto – si finanziavano attingendo al debito pubblico. Durante la prima guerra mondiale, in Italia e in Germania soltanto una quota fra il 6 e il 15 per cento delle spese militari in termini reali fu finanziata dalle tasse, mentre nell’Impero austro-ungarico, in Russia e in Francia, i costi correnti del conflitto non furono finanziati dalle entrate fiscali. Ma inevitabilmente, in tutti i paesi, la base fiscale venne drammaticamente indebolita dai danni provocati dalla guerra e dall’arruolamento. Oggi, ciò è causato dalle sofferenze umane per la pandemia e dalla chiusura forzosa delle attività economiche.

La questione chiave non è se, bensì come lo stato debba utilizzare al meglio il suo bilancio. La priorità non è solo fornire un reddito di base a tutti coloro che hanno perso il lavoro, ma innanzitutto tutelare i lavoratori dalla perdita del lavoro. Se non agiremo in questo senso, usciremo da questa crisi con tassi e capacità di occupazione ridotti, mentre famiglie e aziende a fatica riusciranno a rimettere in sesto i loro bilanci e a ricostruire il loro attivo netto.

Il sostegno all’occupazione e alla disoccupazione e il posticipo delle imposte rappresentano passi importanti che sono già stati introdotti da molti governi. Ma per proteggere l’occupazione e la capacità produttiva in un periodo di grave perdita di reddito è indispensabile introdurre un sostegno immediato alla liquidità. Questo è essenziale per consentire a tutte le aziende di coprire i loro costi operativi durante la crisi, che si tratti di multinazionali o, a maggior ragione, di piccole e medie imprese, oppure di imprenditori autonomi. Molti governi hanno già introdotto misure idonee a incanalare la liquidità verso le aziende in difficoltà. Tuttavia, si rende necessario un approccio su scala assai più vasta.

Pur disponendo i diversi paesi europei di strutture industriali e finanziarie proprie, l’unica strada efficace per raggiungere ogni piega dell’economia è quella di mobilitare in ogni modo l’intero sistema finanziario: il mercato obbligazionario, soprattutto per le grandi multinazionali, e per tutti gli altri le reti bancarie, e in alcuni paesi anche il sistema postale. Ma questo intervento va fatto immediatamente, evitando le lungaggini burocratiche. Le banche, in particolare, raggiungono ogni angolo del sistema economico e sono in grado di creare liquidità all’istante, concedendo scoperti oppure agevolando le aperture di credito.

Le banche devono prestare rapidamente a costo zero alle aziende favorevoli a salvaguardare i posti di lavoro. E poiché in questo modo esse si trasformano in vettori degli interventi pubblici, il capitale necessario per portare a termine il loro compito sarà fornito dal governo, sottoforma di garanzie di stato su prestiti e scoperti aggiuntivi. Regolamenti e normative collaterali non dovranno ostacolare in nessun modo la creazione delle opportunità necessarie a questo scopo nei bilanci bancari. Inoltre, il costo di queste garanzie non dovrà essere calcolato sul rischio creditizio dell’azienda che le riceve, ma dovrà essere pari a zero, a prescindere dal costo del finanziamento del governo che le mette.

Le aziende, dal canto loro, non preleveranno questa liquidità di sostegno semplicemente perché i prestiti sono a buon mercato. In alcuni casi – pensiamo alle aziende con ordini inevasi – le perdite potrebbero essere recuperabili e a quel punto le aziende saranno in grado di ripianare i debiti. In altri settori, questo probabilmente non sarà possibile.

Tali aziende forse saranno in grado di assorbire la crisi per un breve periodo di tempo e indebitarsi ulteriormente per mantenere salvi i posti di lavoro. Tuttavia, le perdite accumulate potrebbero mettere a repentaglio la loro capacità di successivi investimenti. E se la pandemia e la chiusura delle attività economiche dovessero protrarsi, queste aziende resterebbero attive, realisticamente, solo se i debiti contratti per mantenere i livelli occupazionali durante quel periodo verranno alla fine cancellati.

O i governi risarciranno i debitori per le spese sostenute, oppure questi debitori falliranno, e la garanzia verrà onorata dal governo. Se si riuscirà a contenere il rischio morale, la prima soluzione è quella migliore per l’economia. La seconda appare meno onerosa per i conti dello stato. In entrambi i casi, tuttavia, il governo sarà costretto ad assorbire una larga quota della perdita di reddito causato dalla chiusura delle attività economiche, se si vorrà proteggere occupazione e capacità produttiva.

I livelli di debito pubblico dovranno essere incrementati. Ma l’alternativa – la distruzione permanente della capacità produttiva, e pertanto della base fiscale – sarebbe molto più dannosa per l’economia e, in ultima analisi, per la fiducia nel governo. Dobbiamo inoltre ricordare che in base ai tassi di interesse presenti e probabilmente futuri, l’aumento previsto del debito pubblico non andrà a sommarsi ai suoi costi di gestione.

Per alcuni aspetti, l’Europa è ben attrezzata per affrontare questo shock fuori del comune, in quanto dispone di una struttura finanziaria capillare, capace di convogliare finanziamenti verso ogni angolo dell’economia, a seconda delle necessità. L’Europa dispone inoltre di un forte settore pubblico, in grado di coordinare una rapida risposta a livello normativo e la rapidità sarà assolutamente cruciale per garantire l’efficacia delle sue azioni.

Davanti a circostanze imprevedibili, per affrontare questa crisi occorre un cambio di mentalità, come accade in tempo di guerra. Gli sconvolgimenti che stiamo affrontando non sono ciclici. La perdita di reddito non è colpa di coloro che ne sono vittima. E il costo dell’esitazione potrebbe essere fatale. Il ricordo delle sofferenze degli europei negli anni Venti ci sia di avvertimento.

La velocità del tracollo dei bilanci delle aziende private – provocate da una chiusura economica al contempo doverosa e inevitabile – dovrà essere contrastata con pari celerità dal dispiegamento degli interventi del governo, dalla mobilitazione delle banche e, in quanto europei, dal sostegno reciproco per quella che è innegabilmente una causa comune.

I PREZZI AI TEMPI DEL CORONAVIRUS

Si prenda la situazione dei fondamentali di mercato “prima” che tutto questo cominciasse, diciamo alla data del primo Decreto di emergenza, il 23 febbraio: il greggio Brent quotava 58,60 dollari/barile, ossia 54,25 euro/barile, il cambio dava 1,0801 dollari per un euro, la quotazione Mediterraneo della benzina era di 560,50 dollari/tonnellata, pari a 0,392 euro/litro e quella del gasolio a 516,75 dollari/tonnellata e 0,404 euro/litro.

Al 27 marzo, lo scenario era drasticamente cambiato: il greggio quota 24,93 dollari/barile, ovvero 22,71 euro/barile, il cambio si attesta su 1,0977 dollari per un euro, le quotazioni dei prodotti finiti sono crollate a 216,00 dollari/tonnellata per la benzina, pari a 0,149 euro/litro ed a 304,25 dollari/tonnellata per il gasolio, ossia 0,234 euro/litro.

In altre parole: l’euro si è apprezzato di un +1,63 %, il greggio ha perso 33,7 dollari/barile (-57,5 %), ossia 31,5 euro/barile (-58,1 %), i prodotti raffinati sulla piazza del Mediterraneo hanno perso 0,243 euro/litro (-62,0 %) la benzina e 0,170 euro/litro (-42,1 %) il gasolio. Più che dimezzato tutto!

Le ragioni sono note: nello scenario come sempre legato alle dinamiche domanda/offerta ed alle politiche per sostenere il prezzo e gli investimenti nel settore modulando in funzione variabile l’offerta, arrivano a volo due “cigni neri, non si raggiunge un accordo tra OPEC e OPEC+, e più precisamente tra Arabia Saudita e Russia per tagliare la produzione, dilaga la pandemia COVID-19 con le connesse previsioni su una globale crisi economica [dice il 27 marzo l’OCSE che il PIL mondiale perde i 2 % al mese (il rallentamento delle attività erode “per ogni settimana di stop decimali significativi di punto di PIL” diceva FIGISC in un suo comunicato il 4 marzo)].

Come questo ribaltone si sia riflesso sui prezzi alla pompa è presto detto: i prezzi alla pompa sono calati molto meno dei fondamentali di mercato, un risultato cui ha contribuito un calo progressivo ed a picco delle vendite (con punte minime del 50 % e massime dell’85 %, e con decorrenza e distribuzione territoriale variabile dalle prime “zone rosse” fino al lockdown dell’intero Paese) determinato dalle limitazioni alla mobilità di cittadini ed imprese.

I prezzi “consigliati” dalle aziende petrolifere sulla propria rete sono calati dal 23 febbraio al 27 marzo nell’ordine di circa 0,080 euro/litro; andando sui prezzi praticati, come rilevati dall’Osservatorio del MiSE, mediamente a livello nazionale i prezzi nella rete a marchio petrolifero si sono abbassati di 0,080-0,082 euro/litro per la modalità self service, di 0,070-0,073 per la modalità servito, e nella rete indipendente le dinamiche sono abbastanza simili, -0,081 euro/litro per la modalità self service, -0,077 per la modalità servito.

Non sussistono, pertanto, scostamenti tra la linea di pricing praticata dalle aziende attraverso i prezzi consigliati e quella effettivamente applicata dai gestori sugli impianti che battono bandiera petrolifera.

Solo il circuito extrarete, per adesso almeno, sembra poter mantenere una certa coerenza con le dinamiche internazionali: in questo medesimo intervallo temporale, infatti, i prezzi di cessione sono diminuiti di circa 0,210 euro/litro.

È di tutta evidenza che i prezzi al consumo sono diminuiti solamente di circa il 40 % rispetto alla effettiva diminuzione dei valori del mercato dei fondamentali, ma un tanto di fronte, come già osservato, ad un crollo delle vendite medio (tra picchi minimi e massimi) presumibilmente del 65 % che sta erodendo giorno per giorno per carenza di liquidità la sostenibilità economica del sistema distributivo, con tutto ciò che questo comporta rispetto alla difficoltà di poter supportare il rifornimento alla mobilità residua del Paese, oggi ancor più strategica nella fase più acuta dell’emergenza sanitaria.

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