STORIE DAL «MERCATO» & PAROLE IN LIBERTÀ…..

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Cominciamo col dire che le aziende che operano ordinariamente sulla rete operano anche in extrarete, vendendo lo stesso prodotto anche su questo canale, che rappresenta – facciamo l’esempio di una primaria azienda nazionale – volumi di vendite che sono maggiori anche del 30 % rispetto ai volumi collocati in rete.

La quota di vendite di una primaria azienda in extrarete – pur raggiungendo tra il 25 ed il 30 % del totale – denota un rapporto tra capacità di lavorazione e penetrazione nel mercato che attesta della concorrenza del mercato dei prodotti finiti: in sostanza, la spinta a vendere prodotto comunque indirizzato al mercato, in tutti i suoi canali. Si aggiunga che vi sono, per dirla con un’espressione poco elegante, ma senz’altro efficace, «più sederi che sedie», ossia abbondanza di prodotto rispetto ai consumi, che si stanno allargando gli apporti di prodotti lavorati provenienti dall’estero – più convenienti in funzione di fattori del costo del lavoro, di vincoli ambientali, ecc., meno pesanti -, che si stanno diffondendo canali illegali.

Tutti fattori – legali od illegali che essi siano – che condizionano la concorrenza del prezzo dei prodotti finiti.

L’azienda colloca il proprio prodotto in extrarete con prezzo di cessione che vale un margine lordo medio grosso modo di 2-3 cent/litro sopra il cosiddetto Platt’s [la quotazione sul mercato Mediterraneo di benzina e gasolio lavorati] a seconda del prodotto. Ma il Platt’s è un indicatore non sempre attendibile, date le condizioni di mercato appena più sopra evidenziate; detto in altre parole circola prodotto a prezzi più convenienti ed anche inferiori alla quotazione Platt’s.

Una parte tutt’altro che banale del prodotto ceduto generalmente [cioè al di là del nostro esempio aziendale] in extrarete ritorna sulla rete, ceduto alla grande distribuzione ed alle pompe bianche; una quota tutt’altro che banale se oggi – stando ad esempio a quanto afferma il QUOTIDIANO ENERGIA [18.03.3016] «gli indipendenti (che in questo caso comprendono anche la Gdo) hanno una quota del 24,6%, » [una quota, cioè, superiore di un decimo di punto percentuale a quella realizzata dal market leader ENI nel quarto trimestre 2015].

Aziende petrolifere ed altri operatori, in sintesi, lavorano su un mercato globale ed indifferenziato rispetto alla collocazione dei volumi, ma su un mercato distinto in canali differenziati quanto al prezzo. Nel caso delle aziende petrolifere, in particolare, esse fanno cioè concorrenza in extrarete alla propria stessa rete.

Infatti, la stessa azienda colloca beninteso il proprio prodotto anche nella propria rete, ma in questo caso con un margine lordo che vale, invece, grosso modo 11-12 cent/litro in modalità self e 18-19 cent/litro in modalità servito, senza ovviamente conteggiare il margine contrattuale concesso al gestore [parliamo, infatti, del prezzo di cessione, prima della rivendita finale al consumatore].

Che tale differenza sia da attribuire ai costi di rete non spiega tutto: la differenza – e che differenza! – di margine, e quindi di prezzo di cessione che lo genera [al di là di chi sostiene i costi di rete, la compagnia proprietaria o l’indipendente che ha realizzato l’investimento, e di quanti sono i costi di rete, fattori facilmente comprensibili], spiega che le compagnie perseguono, mantenendo il controllo di una rete nonché articolando diversamente il prezzo tra i canali, la ricerca di marginalità flessibili e possibilmente più premianti, nonostante i costi di rete da sopportare. Diversamente, sarebbe più conveniente senz’altro affidare l’intera rete a terzi che si assumano interamente gli oneri della rete ed il rischio di mercato dei prezzi. Scelta che pure è già stata fatta da alcuni marchi che hanno scelto di disertare la rete [una delle variabili di scenario future tra le più plausibili della distribuzione nazionale.

Ma vi sono connessi anche rischi concreti che frenano tale sbocco: dilatare eccessivamente i volumi ceduti in modalità da extrarete, significa dover sopportare una pressione competitiva del prezzo maggiore per tutti i volumi di vendita, rete ed extrarete.

Non è che in rete il controllo del prezzo sia scontato: abbondanza di prodotto, concorrenza prezzi del prodotto lavorato, concorrenza degli operatori che lo immettono sul mercato, generano più competitività per GDO e pompe bianche, che possono scegliere di acquistare tra maggiori opportunità di offerta e/o avendo maggiore potere contrattuale per via dei volumi trattati.

L’azienda che vende in extrarete prodotto che ritorna in rete, deve barcamenarsi tra l’opportunità di cercare margini medi se non più gratificanti almeno più flessibili, tra la necessità di difendersi dai prezzi dei concorrenti più aggressivi in rete, tra la necessità di ridurre margini per contrastare tale concorrenza dove essa è più incalzante e reperire risorse per farlo in altri segmenti.

Ciò spiega, ad esempio, la scelta del delta prezzo tra diverse modalità di servizio: marginare di più su una modalità che ha ancora uno «zoccolo duro» di affezionati [il servito] per migliorare i margini medi complessivi nel caso sia possibile, e quantomeno per generare risorse da destinare ad abbassare il prezzo in modalità self dove si tratta di difendere più strenuamente mercato.

Così accade, ad esempio, che con le risorse ottenute aumentando il margine sul servito nell’ordine di 3-4 cent/litro si possa ottenere una diminuzione di 2 cent/litro del delta prezzo in self rispetto ai no-logo o di qualcosa di meno rispetto alla concorrenza di altri marchi petroliferi – dipende dalla concorrenza, ovvero [come si è spiegato nel numero precedente di FIGISC ANISA NEWS – da quant’è la percentuale di impianti di rete che marcano prezzi più bassi rispetto a quelli dell’azienda che abbiamo preso come esempio.

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Cosa che funziona sino a quando il rapporto tra le due modalità rimane gestibile. Perché è ovvio che se il delta prezzo sul servito diventa troppo alto quel prezzo diventa privo di appeal anche per lo «zoccolo duro» degli aficionados del servito, quindi i volumi venduti si contraggono, quindi ci sono meno risorse per limare i prezzi in self, quindi anche questi volumi si contraggono ed i risultati in termini di quote di mercato calano di alcuni decimi di punto [ad esempio, se si dovesse valutare cosa succede nel primo trimestre 2016 per una primaria azienda a seconda del corso dei prezzi (considerati in funzione del delta tra le due modalità, dal delta con i no-logo e la rete concorrente di marchio, si può ipotizzare fondata una flessione di tre decimi di punto, salvo errori & omissioni di alcuni (non di tutti) dei competitori, ma si vedrà a suo tempo].

Ma mettiamo pure che tutto funzioni, sia pure in equilibrio sulla lama del coltello.

L’azienda può considerarsi, se non soddisfatta, almeno paga di aver difeso mercato e di aver almeno quadrato i conti tra mettere e togliere, cioè di avere compensato in termini di margini.

Perché abbiamo raccontato tutta questa storiella che, in fin dei conti, ci parla pur sempre solo delle ordinarie vicissitudini in cui si dibattono le compagnie?

Ovviamente per parlare del gestore in questo ordinario marasma del «mercato».

L’azienda ha raggiunto, si diceva un momento fa, il suo faticoso e precario equilibrio: è un conto generale [la compagnia ragiona a sua scala, che è quella del gestore moltiplicata per migliaia di volte] e complessivo, che può anche – ma non è detto – quadrare.

Ma nel particolare, nel così detto «micro-mercato» non funziona esattamente allo stesso modo, quel che si quadra alla scala delle migliaia non si quadra a livello del singolo.

Perché, declinato sul concreto territoriale, l’azienda non sempre difende a sufficienza il mercato, spesso discrimina tra i prezzi di cessione tra impianto ed impianto, e ancora cede prodotto a prezzi sempre più bassi alla GDO o ai no-logo, generalmente alza eccessivamente il delta prezzo sul servito, ordinariamente cede il prodotto al gestore al prezzo di cessione più elevato salvo conguagli a valle tra i margini nelle diverse modalità, la relazione tra maggiori costi di gestione e volumi a maggior margine del gestore sulla «scommessa» del servito diventa insostenibile, e via dicendo. Non serve aggiungere altro, essendo fatti tristemente noti alla categoria.

Il tutto, beninteso, per cercare di quadrare il conto generale dell’azienda, ma intanto il conto particolare del gestore si dissesta progressivamente.

E la «centralità del gestore» – un modo sindacalese per definire la sua permanenza sull’impianto, invece della sua espulsione – non è affatto un ripensamento virtuoso dell’una o dell’altra azienda rispetto alla corsa al self od al ghost che pure hanno caratterizzato la stagione degli anni da poco passati [e che tuttora caratterizza marchi primari che di questo hanno fatto l’unica scelta strutturale nella propria rete], ma solo l’occasionale coincidenza e funzionalità con una politica commerciale che, come già detto prima, si propone di sperimentare se «marginare di più su una modalità che ha ancora uno «zoccolo duro» di affezionati [il servito] per migliorare i margini medi complessivi nel caso sia possibile, e quantomeno per generare risorse da destinare ad abbassare il prezzo in modalità self dove si tratta di difendere più strenuamente mercato». Con tutte le variabili, le conseguenze che si vedono quotidianamente e che abbiamo per la enne volta sommariamente riepilogato. E con tutte le precarietà di una politica commerciale valida sino a che produce risultati accettabili per la parte che l’ha unilateralmente scelta, e che dall’altra, quella che la vive sulla propria pelle, è stata intravista tutto sommato come un’opportunità per resistere ancora o almeno come un «male minore» rispetto a tutto il peggio che si può vedere in giro.

Chi scrive è purtroppo certissimo che se raccontassimo queste cose, fuori da ogni ufficialità di ruolo e di fronte ad un bicchier di vino, ad esempio, ad un esponente dell’Antitrust o di una commissione europea che si occupi di concorrenza, ci sentiremmo rispondere che si tratta di storie di ordinario «mercato», spiacevoli, se vogliamo, per chi le subisce, ma tutto sommato sopportabili come un piccolo costo sociale in compenso del vantaggio generale per il consumatore e perfettamente in linea con la visione del diritto comunitario.

Se le andassimo a raccontare a qualche giudice, magari buttando anche lì qualcosa sugli accordi collettivi e sulle eque condizioni per competere nel mercato, ci risponderebbe che le leggi di settore sono piene di princìpi di «persuasione morale» e vuote di qualsiasi straccio di strumento che possa essere validamente usato nei confronti di chi non si lascia affatto persuadere né davvero né solo moralmente, e che, forse, questo non si è voluto fare perché sarebbe stato un modo surrettizio per regolare indirettamente il mercato.

Storie di ordinario «mercato», dunque.

testa scoperta

Il «mercato» non è cosa astrattamente da giudicare, a seconda dei punti di vista, come od ottima o pessima. Il mercato è una possibilità aperta – da preferirsi ad una chiusa -, ma che 1) si misura dai risultati e dal conto complessivo dei costi e benefici, 2) deve avere delle regole compensative per chi vi opera in conseguenza del diverso potere economico che esprime.

Nel caso del nostro settore, limitandoci al «piccolo» mercato della distribuzione [senza addentrarci nel «grande» mercato del petrolio, con tutte le sue variabili finanziarie e geopolitiche] il metro del vantaggio generale [che, diciamo pure, si configura nel vantaggio del consumatore] è decisamente negativo, neppur dubbio, e se è vero che il mercato vero si è affacciato solo nel nuovo millennio, è pur vero che il vantaggio sui prezzi dato al consumatore dall’irrompere del mercato vero è stato mangiato dieci o venti volte dall’abuso della fiscalità sui carburanti e che, sull’altro piatto della bilancia, c’è il dissesto della rete, la perdita di valore degli assetti consolidati, il default della parte che sta in fondo alla filiera, con costi economici e sociali di tutto rilievo. Pochissimi o nulli vantaggi per molti, perdite rilevanti o totali per altri, non è un bilancio da iscrivere nel libro dei mercati virtuosi.

Questa storia – probabilmente l’ultima che racconterà chi scrive, esprimendo, beninteso, solamente il proprio modo di pensare ed assumendosi anche la responsabilità di quel che afferma – finisce con un breve ragionamento che riguarda direttamente il ruolo delle Organizzazioni di categoria.

Che si voglia esser sindacato o associazione, a seconda delle sensibilità della propria storia ed esperienza o della sigla, lo scopo è sostanzialmente quello di essere utili a chi si spera o si pretende di rappresentare.

In altre chiare parole, di fronte ad una situazione di questo settore e di questo mercato [che ci piaccia o meno tale termine] tanto radicalmente cambiata e assai improbabilmente emendabile, ci si può rifugiare in granitiche certezze, che però si sgretolano ogni giorno, ci si può ancora affidare a strumenti che andavano bene in un tempo che fu e che non è più [quasi ogni cosa ha il suo tempo], o magari si deve cercare di cambiare la pelle e la testa e trovare ancora un modo di essere utili a qualcuno.

Quando si discuteva «di chi doveva essere il prezzo» [cose ormai di tanti anni fa] si scelse di trovare una situazione di compromesso [codificata negli accordi che sono stati stipulati a partire dalla fine della contrattazione collettiva, affossata dall’Antitrust sul finire degli anni ’90 (dell’altro secolo)] che non avviasse una «guerra dei prezzi tra poveri». Finì che la guerra tra poveri venne appiccata proprio dalle aziende, con le diverse modalità di servizio, le iperselfizzazioni, e tutte le diverse perversioni che si sono viste nel tempo. Quando si inchiodò il comodato più esclusiva nelle leggi, lo si fece per evitare le gestioni dirette [e già due anni fa un buon quinto della rete di marchio era a gestione praticamente diretta e, comunque, di fronte al fornitore in esclusiva che fa la concorrenza al suo stesso impianto in rete, l’unica residuale autonomia del gestore sarebbe l’overprice codificato negli accordi, strettamente delimitato, peraltro, e praticamente inservibile – visto il livello dei prezzi concorrenti -, il margine pro-litro è diventato la vera camicia di forza dal momento che gli erogati scarsi non garantiscono una remuneratività comunque il margine si coniughi]. La possibilità di nuovi contratti è rimasta una previsione appesa al filo delle leggi di liberalizzazione, un filo spezzato di cui nessuno più parla a voce alta, e neppure bassa.

Di tutte queste scelte, che non sono certo state errori, ma la ragionevole risposta alle minacce del momento [ogni scelta è figlia del tempo, delle circostanze, e dei pericoli immediati che si vedono attorno], è però stata fatta nel concreto – bisogna prenderne atto – piazza pulita, esse non hanno resistito al cambiamento.

FINAL

Oggi serve flessibilità contrattuale, serve tagliare alcuni nodi che stringono come in un cappio fatale il gestore, serve una diversa valorizzazione dei fattori del servizio finale di distribuzione che non possono essere più legati al nesso indissolubile erogato-margine, serve maturare e produrre strumenti anche con una reale crescita del tasso tecnico, per accompagnare l’entrata, il sostegno, l’uscita delle gestioni – comunque siano declinate nelle  più diverse figure contrattuali – dal settore, serve aprirsi ad uno spettro associativo che colga l’evoluzione del settore e la rappresentanza di interessi e ruoli anche diversi da quelli tradizionalmente codificati. Serve, in sintesi, un sindacato o un’associazione che abbia un senso, in questo mercato come esso è e non come si vorrebbe che fosse o si rimpiange che non sia più, e, per inciso, non può più essere quello che, di fronte alla realtà, si limita a rispolverare e recitare vecchie formule che pochi ormai sono in grado di decifrare e che rischiano di avere solo un valore testimoniale.

Ma per questo, se si vuole ancora essere davvero utili, e non già di testimonianza inefficace od addirittura di freno, alla nostra gente ed a quella che ci sarà ancora e sempre anche in fondo a questa filiera, serve in primo luogo cambiare il modo di ragionare e di relazionarsi con gli altri, quelli che sono accanto, quelli che sono contro, e infine quelli che stanno a guardare o non guardano neppure più. Con coraggio e onestà intellettuale.

[G.M.]

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