ACCORDI & DISACCORDI: «AUTONOMIA» DEL GESTORE E PREZZO

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In questo articolo parliamo di prezzi e della presunta «autonomia» del gestore di fissarne il valore finale, un concetto impropriamente «enfatizzato»  sempre negli accordi – quanto meno dal 2003 -, e di cui è opportuno riconoscere/distinguere il reale significato.

Intanto, esso è sempre collegato al concetto del famoso «prezzo massimo», come si può desumere spulciando gli ultimi accordi stipulati con le aziende petrolifere.
Cominciamo con ENI, da Accordo del 19.12.2014, punto 2.7: «…. conformemente al disposto dell’art. 4, §1, lett. a), del Regolamento (UE) n. 330/2010 della Commissione del 20.04.2010… risulta opportuno stabilire prezzi massimi di rivendita [“Prezzo Massimo”]. Tali prezzi massimi non dovranno in alcun modo valere o essere intesi come prezzi minimi o come parametro fisso di riferimento … nella determinazione finale del prezzo di rivendita che resta nell’esclusiva libertà del Gestore».
L’Accordo con ESSO di data 16.07.2014, punto 6, si limita a richiamare quanto previsto nell’accordo del 08.11.2004, che riporta: «Ferma la libertà del gestore di determinare il prezzo di vendita al pubblico, la ESSO ha facoltà di imporre ai gestori un prezzo massimo di rivendita».
Si può proseguire con KUPIT che, nell’Accordo del 14.04.2015, capitolo delle Premesse, punto C), sub punto 3), recita che «il fornitore ha la facoltà di imporre un prezzo massimo, fermo il diritto del gestore di fissare i prezzi di vendita al pubblico», diritto citato anche sub punto 1), laddove si scrive che «…. ferma restando la libertà del Gestore di determinazione dei prezzi effettivamente praticati…..la KUPIT consiglia ai Gestori rivenditori presso gli impianti della propria rete stradale ordinaria i prezzi di rivendita al pubblico dei carburanti».
E, per finire, nell’Accordo del 06.07.2015 con TOTALERG, della libertà del Gestore di determinare il prezzo finale non c’è neppure cenno.
Queste affermazioni di mero principio sulla «libertà/facoltà» del gestore, dunque, si accompagnano generalmente alle affermazioni su «opportunità/diritto» dell’azienda di imporre e determinare al gestore prezzi consigliati e massimi di rivendita.

Il «papocchio» giuridico da tenere insieme è abbastanza chiaro: la merce é del gestore che in quanto proprietario della medesima non può essere espropriato integralmente al 100 % della facoltà di fissare un prezzo, ma il particolare regime commerciale gestore-azienda [comodato dell’impianto e vincolo di fornitura in esclusiva con lo sconto tra il prezzo definito consigliato e quello di cessione (cioé «margine del gestore», come si dice ancora)] comporta che di fatto l’azienda, a tutela del proprio mercato, marchio, immagine, ecc., decida sia unilateralmente quello che viene definito «prezzo consigliato», sia metta unilateralmente dei «paletti» sui valori di prezzo da non superare assolutamente per non mettere, appunto, a repentaglio il proprio mercato.
Il tutto poi si declina operativamente:

a) mediante la determinazione del «quanto» il gestore possa scostarsi dal prezzo consigliato per non sforare il prezzo massimo,

b) con un sistema «sanzionatorio» per cui il gestore che sfora con recidive plurime lo sforamento del prezzo massimo integra sempre una delle clausole espresse per la risoluzione del contratto da parte della compagnia.

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La reale «autonomia» del gestore di fissazione del prezzo sta dunque in quel risicatissimo delta tra prezzo consigliato e prezzo massimo. Perché, infatti, l’azienda determina tutto il resto del processo di formazione del prezzo finale di una merce che è a tutti gli effetti e rischi di proprietà del gestore: stabilisce, infatti, a) che vi sia un prezzo consigliato di rivendita, b) che su questo prezzo sia determinato un prezzo di cessione della merce [prezzo consigliato al netto dello sconto di contratto/accordo] ed infine c) stabilisce un tetto invalicabile al prezzo finale di rivendita. A valori attuali, per dirla in parole chiare, tutta la presunta «autonomia» del gestore sulla fissazione del prezzo vale circa un 1,00 % del prezzo finale nella modalità servito, valore che si dimezza allo 0,50 % nella modalità self.

Ad un tanto si aggiunga che, al di fuori dello stretto rapporto contrattuale con i gestori del marchio, le compagnie petrolifere di riservano la libertà di rifornire altri operatori della rete a prezzi di cessione che rendono impraticabile ed impossibile qualsivoglia competizione da parte del gestore sul piano del prezzo al pubblico. Possiamo dire che le aziende hanno dunque almeno quattro «autonomie» sostanziali: 1) il prezzo di cessione al «mercato» complessivo, 2) il prezzo di cessione al gestore di marchio, 3) il prezzo consigliato al gestore e 4) il prezzo massimo del gestore, ossia almeno il 99 % del prezzo finale.

Può essere che questo tipo di sistema – incardinato per di più in precise leggi di settore e ripetitivamente «santificato» negli accordi vecchi e nuovi – tutelasse in qualche modo la figura del gestore fino a….ormai parecchi anni fa. E, infatti, basta fare mente locale ad una serie di numeri semplicemente instaurando un confronto tra oggi ed il 2003 [l’anno in cui si cominciarono a fare accordi aziendali con la nuova metodologia dopo che l’Antitrust aveva affondato la contrattazione collettiva] per cogliere la scarsissima attualità ed adeguatezza di questo tipo di sistema.

Da allora [e se parliamo di valori monetari, li consideriamo come attualizzati, cioè rivalutando ad oggi i valori di quell’anno] ad oggi:

a) il margine medio del gestore ha subìto una decurtazione del 12 % sulla modalità servito e del 22 % sulla modalità self;
b) il rapporto tra vendite in modalità servito e vendite in self si è letteralmente capovolto, penalizzando a sua volta il margine medio tra le due modalità, in misura tale che il risultato é una perdita secca del 28 % del valore del margine medio;
c) il delta praticabile per condizioni di accordi tra prezzo consigliato e prezzo massimo [l’unica «autonomia» del gestore sul prezzo] è diminuito del 34 %;
d) il divario tra prezzo di cessione ai terzi e quello di cessione al gestore è aumentato mediamente del 21 %, con punte del 69 % sul prezzo di cessione al servito;
e) la quota di mercato rete degli indipendenti e «bianchi» [che si approvvigionano anche dagli stessi marchi che riforniscono il proprio gestore] è cresciuta di quasi sei volte, dal 3,8 al 22 %;
f) i consumi in rete sono diminuiti del 20 %.

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Precisato quanto sopra esposto, e chiarendo doverosamente che quelle che seguono sono opinioni, non nuove, ma strettamente personali di chi scrive questo articolo, si rende necessaria qualche osservazione finale.

Lo schema, diciamo, giuridico e contrattuale che regge ancora la grande maggioranza delle relazioni gestori-compagnie – per tutte le ragioni che sono già state scritte anche in articoli precedenti sotto la rubrica ACCORDI & DISACCORDI – garantisce oggi solo queste ultime, soggetti che non hanno certo bisogno di essere ulteriormente garantiti.
Né si tratta solamente di «aggiustare» il modello mantenendone lo «scheletro» inalterato ed introducendo, magari, qualche aleatoria «reciprocità» che vincoli le compagnie e che ne renda, almeno formalmente, meno totalizzante il predominio e l’evidente abuso di dipendenza economica cui  sottopongono il gestore.

Si tratta di cambiare proprio registro e modelli.

Così come è più che mai attuale riproporre il senso – a meno che non ci si rassegni alla residualità e consunzione -, di un sindacato/ associazione dei gestori che sia «utile» per chi opera nel settore nell’attuale contesto di mercato e di relazioni.

Si tratta di decidere, cioè, se abbia ancora senso ripetere vuote litanie su mercati «ideologici» – che non torneranno mai più -, su «figure giuridiche» che sono solo astratte, su «diritti» che non solo sono sistematicamente elusi, ma che sono diventati addirittura una gabbia per quelli stessi che avrebbero dovuto tutelare «di qui all’eternità», o se si tratta di trovare culture e soluzioni  per rendere praticabile il vero diritto/dovere del gestore – o di come lo si voglia chiamare o classificare e sotto qualsiasi figura si voglia declinare – che è quello poter ritrovare giustificazione, sostenibilità, insomma motivo, all’opportunità economica di lavorare in questo settore, o, ancora, di avere il coraggio di dire chiaramente se  tale opportunità c’é ancora o non c’é più.

[G.M.]

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