ALLA RICERCA DEL TEMPO PERDUTO…
— 12 Giugno 2017AVVERTENZA:
Il seguente contributo, «ospitato» in questo numero, riflette esclusivamente l’opinione del suo estensore e non necessariamente, né in tutto né in parte, o anzi proprio per nulla affatto, quella di FIGISC.
Chi scrive non partecipa in prima persona ormai da parecchi anni alle attività sindacali delle organizzazioni di categoria dei gestori [trattative aziendali, incontri istituzionali o di settore, incontri unitari, ecc.] e non ha diretta ed immediata percezione delle dinamiche del fare di ogni giorno; può dunque sembrare del tutto pretenzioso, ammettiamolo pure, che si arroghi un diritto di opinione su questi fatti.
Forse però guardare sempre le «cose da dentro», negli stessi ambienti, con le stesse controparti e gli stessi interlocutori, con linguaggi e schemi ripetitivi, finisce per chiudere in un «cerchio magico» paralizzante sia i ragionamenti che i metodi di lavoro. Può essere che talvolta guardare le «cose da fuori» serva a stimolare qualcosa di diverso. Non è certo, ma è teoricamente plausibile.
Per andare direttamente al sodo, dieci anni fa – e non siamo qui certo per celebrarne il decennale, ma solo ad storicizzare retrospettivamente gli ultimi dieci anni del settore – nasceva Iperself , che costituiva la risposta ad alcuni obiettivi aziendali, che si possono così schematicamente riassumere: a) togliersi dalle peste dell’indagine Antitrust I681/2007, riguardante tutte le compagnie, per supposta «collusione nella determinazione del prezzo consigliato dei carburanti»; b) movimentare la concorrenza dopo qualche anno di performances calanti delle proprie quote di mercato; c) cominciare a portarsi direttamente a trattare condizioni economiche con i singoli gestori, ottenendo come sottoprodotto dell’operazione una erosione della funzione della rappresentanza sindacale.
Con gli impegni [resi noti solo dopo qualche mese dall’avvio dell’iniziativa commerciale di Iperself] assunti nei confronti dell’Autorità garante del mercato e della concorrenza, ENI decideva 1) di stabilire un prezzo consigliato diverso a seconda delle caratteristiche dei singoli impianti; 2) di «modificare la struttura dei rapporti con la propria rete di distribuzione, in modo tale da introdurre in modo permanente un maggiore grado di competitività sia intrabrand sia interbrand».
Nell’apparentemente solido edificio, costruito per durare mille anni, dell’assetto dei rapporti tra gestori ed aziende, basato sul comodato gratuito, la determinazione del prezzo all’operatore finale ed un margine concordato «certo,» venivano così inserite le prime potenti mine che l’avrebbero fatto crollare come un castello di carte, consistenti nel rendere «incerto» il margine – ossia legato alla concorrenza ed alle misure di difesa mercato [in parte a carico del margine del gestore], al mix delle modalità delle vendite – e l’«erogato», e nella «individualizzazione» del rapporto con l’azienda e le sue politiche commerciali.
Ciò che si è poi sviluppato nel corso del decennio, sotto ulteriori forme e sviluppi, è sotto gli occhi di tutti, ed è plausibile che ancora una parte non marginale dei gestori che c’erano allora siano, ancora oggi, anche se sempre più disastrati, testimoni della memoria sulla propria pelle di tali processi. Vi sono state fasi in cui quella prima impostazione sembrava prevalente e destinata ad essere l’unica praticata e ad incattivirsi progressivamente, vi sono state fasi successive dominate dalla fascinazione per l’«automazione integrale» della rete e la razionalizzazione dei prezzi ottenuta per mezzo dell’espulsione del gestore dalla fase distributiva, seguite da fasi, più recenti, di recupero del gestore in quanto – e pur sempre sotto minaccia di espulsione – esclusivamente funzionale a complesse politiche commerciali miranti a creare marginalità [assolutamente non ripartite in equa misura tra quest’ultimo e l’azienda] e faticosi riequilibri arzigogolati di una concorrenza dovuta sostanzialmente ad una asimmetria nell’accesso a prezzi e prodotti.
Infine, e da ultimo, il periodo è contraddistinto dalla «fuga» di importanti marchi, o, nel caso, più graduale, dallo «spacchettamento» di importanti reti [ma è una cosa cominciata, sia pure «in punta di piedi», sin dal 2010], con l’amara scoperta che il gestore «venduto» a terzi dalla compagnia può o non può – la risposta certa non è stata ancora sviscerata – considerarsi tutelato da eventuali accordi intercorsi prima della cessione del ramo d’azienda con la compagnia cedente.
Anche in questo caso, a far franare anche gli ultimi baluardi del solido castello di mille anni, basta una semplice variabile: che la compagnia – che avrebbe presumibilmente anch’essa dovuto durare mille anni – decida di vendere un pezzo della propria rete….
Per contrastare questa oggettiva iattura, che aprirebbe il mercato a nuovi e vecchi soggetti non omogenei con il vecchio sistema, si invoca che i governi attuino misure – o anche solo della semplice moral suasion – per far restare nel Paese chi ha già deciso che se ne vuole andare, così che viene da chiedersi, «da fuori», cosa si possa fare per far recedere da questa decisione ESSO o TOTALERG o chi altri. Cosa dovrebbero politica e governi offrire – perché qualcosa si dovrà pur offrire per ottenere che costoro ritornino sulle proprie decisioni e non se ne vadano, non spacchettino, non svendano – di nominabile od innominabile? L’assegnazione di quote di mercato sufficienti [è il problema di TOTALERG che giudica la propria non adeguata a rimanere sulla rete nazionale]? La chiusura dei punti vendita che non si approvvigionano presso il sistema petrolifero tradizionale? La fissazione di un margine al gestore da 12 euro/klt? Varie ed eventuali?
In sostanza, si vuol dire che tutto il complesso delle «regole» – che pure erano state pensate come stabili, permanenti – è venuto meno rispetto all’evoluzione del sistema, della rete e del mercato.
Può essere magari consolatorio ed autoassolutorio pensare che la situazione reale è radicalmente diversa da come ce la immaginavamo all’interno delle famose «regole» semplicemente perché le controparti sicuramente per interesse, la politica probabilmente per indifferenza, hanno o violato consapevolmente le «regole», o per incuria non le hanno fatte rispettare – a seconda del ruolo e delle motivazioni -.
Può essere ancora consolatorio ribadire che queste «regole» sono pur tuttavia esistenti [tant’è che vengono liturgicamente ribadite – 32/1998, 57/2001, 27/2012 – in tutta la notevole mole di lettere, diffide, richieste di vertenze collettive, ecc. che viene prodotta di consueto (lasciando, peraltro, il tempo che trovano verso controparti che intendono ignorarle)]. Che tali «regole» siano efficaci nella realtà del mercato è altra cosa.
E c’è da chiedersi effettivamente se le «regole» esistenti siano una specie di mantra, da ripetere per la loro carica «magica» che evoca un mitico mercato perduto senza avere il minimo effetto nel mercato quotidiano, o se sia il caso di lavorare perché si ri-scrivano «regole» che abbiano almeno una minima attinenza alla realtà dei fatti.
La situazione attuale, infatti, presenta non pochi aspetti che sono decisamente paradossali.
Esistono «regole», ad esempio, che «costringono a sedersi» [quelle che stabiliscono che ci debbano essere accordi tra proprietari della rete e gestori], ma non che «costringano ad accordarsi» e la stessa costrizione a trattare è assolutamente teorica [non c’è alcuna penalizzazione a non farlo, prova ne sia che alcune aziende non si sono mai «sedute» con le rappresentanze dei gestori].
Esistono «regole» che dicono che si possono introdurre nuove tipologie contrattuali, ma nessuno ha mai avuto da ridire se esse non sono state introdotte. A tutt’oggi la tipologia prevalente è quella del comodato con esclusiva, esistono varie situazioni off limits [guardianie, associazioni, appalti di servizi] del tutto intutelate in quanto fuori schema, una sola alternativa [contratto di commissione] con un livello di applicazione vicino allo zero, ma non, ad esempio, un solo contratto di affitto di ramo d’azienda [forse l’unico che potrebbe consentire una relativa riequilibratura delle asimmetrie di accesso a prezzi e prodotti, ottenendo anche un livellamento generale dei prezzi tra i vari segmenti di rete, una liberalizzazione «vera»].
Il prezzo al pubblico «è» del proprietario della merce-gestore, ma non è affatto il proprietario della merce-gestore che decide su quale mercato comprarla ed a che prezzo di cessione, né quale sia il prezzo finale che è, invece, consigliato, definito nel suo massimo e codificato fino all’ultimo decimale nello sforamento consentito dal fornitore, un equivoco che dura da anni e anni.
Esistono le «eque condizioni», ma non esistono, neppure a cercarli, nemmeno due impianti eguali per poter applicare una clausola tanto generica quanto ingannevole, e la «regola» sul così detto «abuso di dipendenza economica» se dovesse essere applicata comporterebbe una causa legale per ogni distributore presidiato da gestore dalle Alpi al Lilibeo.
Esiste una sorta di, chiamiamola così, «previdenza integrativa» futura per il gestore, la cui realtà quotidiana è però quella di non arrivare a quadrare i conti oggi ed adesso, non un domani, e, chiamiamolo così per capirci, l’«avviamento improprio» di uscita dal settore oggi è stato destinato in gran parte a regalare i soldi per le bonifiche di chiusura degli impianti, in un incredibile loop nella grande incompiuta della razionalizzazione della rete tra risorse per smantellare cisterne e mezzi per indennizzare gestori.
La distanza sempre meno colmabile tra regole e fatti ha anche una sua variabile specifica: la logica comportamentale per cui talvolta i «sindacalisti» presumono, consapevolmente o meno, di vestire anche i panni dell’avvocato ha spesso determinato «regole» così generiche, per quanto ricchissime di principi pregnanti, che poi costringono l’avvocato a vestire i panni del sindacalista [con il danno collaterale dei tempi legali che non coincidono affatto con quelli entro i quali si decide la sorte del gestore, che non si sa con quali strumenti misurare un danno patito o le condizioni non rispettate, ecc.].
Una serie di paradossi, insomma, che testimoniano della lontananza delle «regole» dalla realtà, secondo un punto di vista magari non condivisibile, o del contrario [realtà contro le «regole», ossia «regole» non osservate, per chi voglia consolarsi così].
Comunque la si veda, i castelli disegnati sulla carta sono diventati effettivamente di carta.
Ed il tempo che passa non ha fatto che amplificare fino all’inverosimile i paradossi.
Alla «ricerca del tempo perduto», retrospettivamente gli ultimi dieci anni sono stati anni più spesi a creare conflittualità, talvolta anche artificiose, a giocare su attendismi tattici confidando negli errori di altri o nell’intervento solutore di terze parti, che a cercare soluzioni, e, in particolare, gli ultimi cinque – ossia grosso modo esattamente dall’entrata in vigore della legge Monti del 2012 – sono stati anni improduttivi.
Non si possono consumare, ad esempio, due anni solo per stabilire se esistono due distinti livelli di articolazione di una nuova tipologia contrattuale [interprofessionale ed aziendale], mentre ciò che è veramente mancato è un tentativo, con tutte le incognite del caso e delle controparti, di cercare una specie – per dirla in modo forse altisonante, ma solo per comodità ed ampiezza di concetto – di autonomo «progetto industriale» per ricollocare ruolo, strumenti di relazione, accessi al mercato, inquadramento, per una figura professionale, comunque la si definisca o la si voglia chiamare, quale quella del gestore, di cui il sistema distributivo ha sempre comunque avuto bisogno.
Nel frattempo la scelta è stata quella di attaccarsi alle «regole», così come esse stanno, cioé con tutti i loro limiti e dubbie – o persino nulle agli effetti pratici – efficacie, con il risultato di lasciar languire le situazioni fino ad approdare agli scenari – imprevisti o non previsti prima o non ritenuti plausibili -, della fuga di parti importanti del sistema e della frammentazione e mutazione degli interlocutori, solo di tanto in tanto potendo chiudendo specifici accordi che han risposto alla volontà/necessità delle singole aziende di avviare, senza eccessivi ostacoli, le proprie singole politiche commerciali del momento, ed in cui solo con molta immaginazione si potevano scorgere valenze «sindacali» quali, ad esempio, una rinnovata «centralità del gestore» piuttosto che le «eque condizioni» o altri elementi tali da introdurre qualcosa di utile e di innovativo [e meglio sarebbe dire di «necessario»] ai fini dello sviluppo della contrattualistica, e, in generale, a quella specie di «progetto industriale» che non è stato neppure pensato né da una parte del tavolo [plausibilmente quella della controparte], ma neppure dall’altro.
Ne consegue che si è allargata la forbice tra la «realtà vera» ed il mondo delle «regole teoriche» che si vuol continuare a rappresentare, una frattura che fa decadere proporzionalmente la credibilità e l’utilità delle rappresentanze e che fa disperare di una qualunque evoluzione dello stato di fatto.
Ne consegue che, non avendo altro rifugio che quello delle «regole teoriche», ci si fossilizzi su una comunicazione verso il nostro mondo, e verso quello esterno, sempre più obsoleta e condensata in un «linguaggio di legno» che purtroppo non dice più nulla ai gestori – perché non sufficientemente in grado di rappresentare soluzioni per il presente, ma solo appelli ad un passato che non è più rintracciabile -, che è fin troppo scontato per gli interlocutori tradizionali [che conoscono, per una frequentazione pluridecennale, perfettamente i modi di ragionare, i riti, le mosse tattiche – spesso, anzi sempre, ripetitive – della rappresentanza dei gestori e sanno come infiltrarsi nei nostri neuroni], che è del tutto avulso dal modo di ragionare dei nuovi soggetti che prendono il posto dei vecchi, che alla politica non propone nulla di nuovo o sostanziale per cui valga la pena di investirci tempo [e tre interrogazioni sul «modello grossista» non faran primavera], circostanze tutte che non servono a favorire né consenso, né a creare un clima di franco scontro o confronto.
E, a proposito di nuovi soggetti, viene da chiedersi in che cosa sia diversa la «arroganza dei nuovi padroni» rispetto a quella dei «vecchi padroni» o se quest’ultima fosse preferibile alla prima. Come si è visto – ritornando sulla vicenda Iperself con cui si è aperto questo contributo -, i così detti «vecchi padroni» non hanno avuto esitazioni dieci anni fa a fare strame delle certezze contrattuali su cui le rappresentanze avevano pensato di fondare la tutela della categoria, così come, in tempi più recenti, non hanno avuto scrupolo a sottoscrivere accordi solo per poter vendere i pezzi della propria rete senza conflittualità interne al marchio, senza parlare poi di tutte le variabili contrattuali spurie proposte in questi anni alle gestioni sotto l’egida di questo o quel marchio.
Se la ragione per cui l’arroganza dei vecchi padroni era, od è ancora, preferibile a quella dei nuovi fosse da identificarsi solo nel fatto che i primi fan finta di «sedersi ad un tavolo», di, diciamo così, «omaggiare formalmente» le tre organizzazioni di categoria e magari anche di «non negare a priori» l’esistenza del 32/1998, 57/2001, 27/2012 ecc., mentre i secondi non fanno neppure questo perché si concentrano a fare il proprio business, beh, la differenza non è poi tanto significativa, specie se si considerano i precedenti degli ultimi dieci anni.
Qualcosa di diverso? Forse si potrebbe fare qualcosa di diverso, cambiare registro, stile e paradigmi mentali per rendere il tutto maggiormente attinente alla realtà della situazione, evitare di rendersi prigionieri del percorso rituale della controparte, cercare di ragionare di economia e mercato, avere un progetto industriale ed una visione di strumenti concreti, più che di diritti inefficaci. Sia il vecchio modo di essere che il nuovo sono qualcosa che sta nella testa, le teste stanno sulle spalle degli uomini, anzi, diciamo così e con tutto il rispetto, della leadership.
Comunque sia, non c’è ancora moltissimo tempo a disposizione: primo perché il tempo vola e non è detto si possa attendere vent’anni, quali, ad esempio, sono serviti al contenzioso legale per decidere che i cali carburanti vanno pagati, secondo perché il petrolio non se lo fila quasi più nessuno, se è vero [e lo è, vedesi STAFFETTA QUOTIDIANA 10.05.2017 «Fossili, Gesuiti italiani aderiscono a campagna disinvestimento»] che le Organizzazioni Cattoliche persino, tra cui i Gesuiti «annunciano l’intenzione di ritirare i loro investimenti dalle fonti fossili in modo progressivo entro i prossimi cinque anni».
E ciò detto, forse è opportuno che lo scrivente, come si dice nei matrimoni, «taccia per sempre». [G.M.]