CONTRATTUALISTICA E GESTORI: ANCORA QUALCHE SPUNTO DI RIFLESSIONE

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A fine aprile 2015, a Berlino, le «da una parte, associazioni delle società delle stazioni di servizio [nel dettaglio: la Associazione federale delle stazioni di servizio indipendenti, la Associazione dei produttori di oli minerali e la Associazione di medie imprese con produzione di oli minerali] e, dall’altra, le associazioni dei gestori delle stazioni di servizio [nel dettaglio: la Associazione federale dei gestori delle stazioni di servizio e lavaggio di automobili, la Associazione interprofessionale delle stazioni di servizio, la Associazione della riparazione automobilistica della Baviera ed il Centro associazioni delle stazioni di servizio]» [stiamo citando puntualmente dal documento] hanno assieme redatto un codice di comportamento che, al punto II sub 4), dice testualmente:  «Equità di trattamento. La società delle stazioni di servizio e i gestori delle stazioni di servizio dovranno mantenere tra loro un comportamento equo. L’obiettivo della loro collaborazione è quella di sfruttare insieme le opportunità di mercato, al fine che i gestori delle stazioni di servizio riescano ad ottenere un reddito adeguato e sufficiente per vivere. Le modifiche dei contratti dovranno essere eseguite in modo proporzionato riguardo ad entrambe le parti

L’articolo sull’equità di trattamento merita un commento. Esso coglie senza giri di parole, assai meglio, ad esempio, di quanto non facciano le disposizioni delle nostre norme nazionali [art. 28, commi da 12 a 14, della Legge 111/2011, come modificato dall’art. 17, comma 2, della Legge 27/2012], il senso reale del problema: in buon italiano, anzi in buon tedesco, «al fine che i gestori delle stazioni di servizio riescano ad ottenere un reddito adeguato e sufficiente per vivere» è senz’altro più efficace e diretto di quanto non sia l’obliqua formulazione legalese italiana «I nuovi contratti devono assicurare al gestore condizioni contrattuali eque e non discriminatorie per competere nel mercato di riferimento».

L’esempio, preso «a prestito» da altre realtà europee comunitarie, porta inevitabilmente a sottolineare ancora una volta il sommario bilancio della «fortuna» incontrata da quelle stesse norme italiane in materia di contratti che hanno ormai più di quattro anni di vita e che non hanno prodotto, sinora, risultati di alcun tipo – cioè sono inattuate e disattese -, vuoi per paura, da un lato, quello sindacale, di abbandonare schemi consolidati, come il comodato con esclusiva di fornitura [la cui sostenibilità è chiaramente alle corde, e la cui applicazione è sempre più contorta rispetto alle strategie di pricing delle aziende che ancora sono intenzionate a rimanere sul mercato], vuoi, dal versante della controparte petrolifera, perché l’immutabilità delle figure contrattuali ha costituito un ottimo alibi per agire liberamente sul mercato, ribaltando peraltro la responsabilità della stasi alla parte sindacale.

In questa stagnazione, tuttavia, vi sono situazioni in movimento: lo dimostra l’interesse del mondo petrolifero verso il così detto contratto di commissione, interesse che però andrebbe più correttamente interpretato secondo la lettura che ha dato tempo fa, a proposito di rottamazione del comodato, Ulisse-Piunti [su STAFFETTA, numero del 22.07.2016]: «La oil Company potrebbe incrementare la efficienza del sistema di trasporto usando le cisterne della stazione, sorvegliate a distanza, come proprie (peraltro lo sono), lasciando spazio alla ottimizzazione del trasporto (e al controllo della regolarità degli scarichi)… ma non può; vorrebbe controllare direttamente il pricing senza l’anello di trasmissione del gestore che, come mostrato in precedenza, potrebbe seguire politiche diverse e potenzialmente negative per l’insieme, proprio perché viste da un solo punto di vista… ma non può; potrebbe pilotare a distanza in modo automatico le variazioni di prezzo con frequenza elevata, anche più volte al giorno, a seguire passo passo concorrenza e flussi di traffico… ma non può; potrebbe creare una migliore contrattualistica per separare oil e non oil, cercando poi di ricomporli assieme con una politica globale di budget di stazione e con l’integrazione informativa… ma non può…».

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In questo «volere e non potere» determinato dai vincoli del vecchio comodato, si spiega l’interesse dell’industria petrolifera a ragionare dei nuovi contratti di commissione [peraltro con l’aria di accondiscendere con magnanimità alla richiesta delle associazioni dei gestori], e si spiega ancor meglio il fatto che non si voglia, da quella parte del banco, introdurre [anzi, si voglia togliere se altri l’avessero già previsto] alcun riferimento in questi nuovi contratti alle «eque condizioni» una volta che l’azienda si sia riappropriata della titolarità della merce e, quindi, del prezzo [che, peraltro, è già indiscutibilmente suo, dal momento che ne fissa unilateralmente il valore di cessione ed il valore massimo di vendita al pubblico, e che detiene la più assoluta libertà di vendere alla concorrenza alle condizioni che ritiene più opportune].

Nell’ottica delle compagnie dei rapporti coi gestori, infatti, non sembra certo avere grande priorità il concetto che «i gestori delle stazioni di servizio riescano ad ottenere un reddito adeguato e sufficiente per vivere», e dopo una lunga stagione di margini ed erogati sempre più evanescenti ingabbiati nella logica del comodato, forse sembra sufficiente a sbarazzare il problema dal tavolo la sola semplificazione dei rapporti commerciali attraverso la figura del commissionario.

Il che non significa, beninteso, che l’approccio dirigista e grezzo delle controparti debba consigliare a fare marcia indietro sulla questione dei contratti, anzi….

La questione dei contratti è, invece, assolutamente prioritaria e non può essere né concepita né condotta con strane strategie «dei due tempi», come, sostenere che la ristrutturazione della rete è il primo obiettivo in ordine di tempo e solo dopo verrebbe la questione contratti, perché con una rete diversa, meglio organizzata e con più opportunità commerciali e di servizio [«quanto?» e «quando?», le prime domande che ci vengono in mente], sarebbe più facile gestire riforme contrattuali ed accordi economici. Assai difficilmente si può sostenere oggi, dopo quanto osservato nell’ultimo decennio, che siano i «numeri degli impianti» a fare la differenza del mercato che è, invece, caratterizzato dal «prezzo».

Né, come più volte detto, la questione dei contratti può essere concepita e/o condotta con la logica «monotematica» [una sola figura, un solo contratto, che ne sostituisce progressivamente un altro ormai logoro]: la complessità del mercato richiede la massima flessibilità delle figure contrattuali e professionali – beninteso in un quadro definito e tipizzato -, anche a fronte della terziarizzazione che sembra il segno strisciante degli assetti della rete [ESSO e TOTALERG insegnano….] e che sembra sempre più restringere la platea dei gestori tradizionali e, nello stesso tempo, allargare quella dei gestori non tutelati e «non codificati», e senza contare che poi quello che serve davvero, al consumatore, agli operatori finali, ai prezzi, è lo svecchiamento del sistema, la diffusione di figure imprenditoriali strutturate che assumano il rischio del mercato in un quadro di libertà di accesso reale a prodotti e prezzi: un processo che è dunque ben diverso dal semplice abbandono del mercato da parte delle petrolifere in favore di uno scenario da territorio di libera incursione dei fondi di investimento…. [G.M.]

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